Non solo cyber è l’ultimo libro del mediologo Antonio Tursi che raccoglie gli articoli scritti dal novembre 2007 al gennaio 2013 per il settimanale L’Espresso (pubblicato da Mimesis, pp.103, euro 12), su invito del suo mentore Derrick De Kerchove, allievo di Marshall Mcluhan. Tursi non disegna un palinsesto monotematico, bensì usa la metafora della rete per descrivere le nevrosi della politica, della religione e della società contemporanea.
L’autore calabrese precisa che il significato della parola cyber è un «prefisso usato ormai di frequente per indicare la necessità di ripensare diverse problematiche, anche assai poco legate tra loro, in un nuovo orizzonte concettuale aperto dall’invenzione e diffusione di macchine che interagiscono strettamente con l’uomo. Ma, come scriveva Norbert Wiener nel 1948, abbiamo deciso di chiamare l’intero campo della teoria del controllo e della comunicazione sia nelle macchine che negli animali con il nome di cibernetica che deriva dal greco kubernétés, timoniere». Controllo che si fa sempre più pressante da parte dei governi e delle intelligence, come dimostra il recente caso Datagate, il grande fratello di orwelliana memoria, o il controllo del crimine a Los Angeles nel film The end of Violence (1997) di Wim Wenders.
La rete può essere uno straordinario medium democratico per consentire ai cittadini di fare comunità, esprimere una appartenenza politica (dal partito alle discussioni per l’acqua pubblica) ed evolversi culturalmente. Si assiste, invece, ad un uso demagogico della tecnologia che ci consente di spegnere il frigo dal cellulare o controllare la cottura del pollo nel microonde (come viene spiegato dettagliatamente a ogni Salone del Mobile), anche se abbiamo ancora un enorme digital divide che separa centro e periferia.
Mcluhan teorizzava che «il medium è il messaggio» ma, come evidenzia Tursi, «i media non sono strumenti per trasmettere messaggi, bensì insiemi di aggeggi (dalla ruota al denaro, dall’alfabeto alla televisione) e pratiche che formano un vero e proprio ambiente abitativo… che agevolano la costruzione di legami sociali». Proprio i rapporti sociali sono la base di Twitter e Facebook, uno spazio dove le frustrazioni dei cybernauti vengono riversate con virulenza. Facebook è diventato una piattaforma in cui comunicare le proprie attività professionali con l’uso di immagini accattivanti per raccogliere quel consenso (I like) necessario a guadagnare visibilità.
Allo stesso tempo, è anche un luogo dove giocare a fare l’agricoltore con Farmville, immedesimarsi nei problemi di gestione un po’ come l’antenato SimCity (1989), in cui l’utente amministrava un’intera città.
Se da un lato Tursi analizza nel capitolo «Piattaforme» i sistemi di comunicazioni digitali come Wikipedia, i blog, i social, il 3D e l’iPad, e in «Soggettività» enfatizza l’uso della tecnologia, dal caso Pistorius ai nostri device come protesi, fino all’eterno problema della privacy, è nel capitolo «Forme politiche» che riprende le riflessioni presenti del precedente Politica2.0. Ripensare la sfera pubblica. Così, la rete che avrebbe dovuto consentire a chiunque di esprimere la propria diversità e autonomia, nel caso di Grillo ha generato «un popolo che è costruito intorno al leader, che gli corrisponde in pieno, che mortifica le differenze e appiattisce le diversità».
Nelle ultime due parti viene affrontato il tema del digitale in relazione alle arti visive in «Forme Espressive», mentre in «Spazi e tempi» come la tecnologia e la rete riusciranno a creare nuovi spazi in tempi lontani. Nella prima, si evidenzia l’assenza o l’uso parziale delle tecnologie digitali in ambito visivo, a partire dalla Quadriennale di Roma (2008), la scomparsa della Kodak, la nota casa di produzione delle pellicole e delle macchine fotografiche, fino al disegno del quotidiano, ovvero case e arredi, con l’utilizzo di Autocad da parte di architetti e designers. Nella seconda, è il futuro il focus esemplificato dall’articolo Catastrofe2.0, in cui la realtà delle catastrofi naturali come terremoti, uragani e alluvioni supera la fantasia di filmaker come Roland Emmerich (The day after tomorrow, 2012). Mentre in «Cosa resterà di noi nel 2060» Tursi scrive che «in luogo di percorrere strade e fermarci su piazze, ci muoviamo sempre più spesso su autostrade telematiche e incontriamo estranei sulle chat room…Di questa mutazione gli storici del 2060 dovranno tenere conto».