Falso allarme, o quasi: la fine del libero ingresso e permanenza in Uk non sono (ancora) imminenti. Di certo la mannaia della “cut off date,” la data di scadenza per i cittadini europei già presenti su suolo britannico che intendono richiedere la residenza in Uk, contrariamente alle indiscrezioni del Daily Telegraph di domenica scorsa, non calerà il 15 marzo, data in cui Theresa May aveva ripetutamente annunciato l’applicazione del famigerato articolo 50 del Trattato di Lisbona, quello che sancisce l’inizio delle negoziazioni che dovrebbero completarsi con la fuoruscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea.

Lo ha dichiarato un portavoce di Downing Street, dopo che l’annuncio del giornale della destra conservatrice aveva scatenato una bagarre e la replica piccata di un alto funzionario di Bruxelles, con il richiamo a Londra di onorare i propri doveri finché è formalmente parte dell’Unione.

Il termine non sarà dunque annunciato dal governo prima della conclusione dei negoziati sul destino reciproco dei 3.6 milioni cittadini europei residenti in Uk e del milione e duecentomila britannici che vivono e lavorano nei paesi dell’Ue.

Ma se la fine della libera circolazione di cittadini dell’Ue verso il Regno Unito non viene ancora dichiarata, è solo a fini tattici. Continua così il braccio di ferro fra Londra e Bruxelles che usano la sorte dei rispettivi cittadini come merce di scambio al fine di ottenere un accordo il più favorevole possibile.

Il contenzioso principale riguarda proprio la data d’inizio delle negoziazioni, che dovranno necessariamente concludersi entro i due anni successivi: se Bruxelles preferisce che cada il più tardi possibile – si era espressa per il 2019 – Londra vuole il contrario e May, per non vedersi schiacciata fra il becerume nazionalista dei tabloid, un’opinione pubblica sempre più insofferente di quello che percepisce sempre più come un cosmopolitismo liberal-metropolitano, e la destra geneticamente euroscettica del suo partito, aveva annunciato marzo come limite ultimo già mesi addietro.

Ciò non impedisce l’imbarbarimento dei toni, come dimostrano le dichiarazioni, rilasciate sempre al Telegraph, da una fonte governativa: «Ci è stato accennato che la Comissione Europa potrebbe cercare di obbligarci a proteggere chiunque arrivi fino al momento dell’uscita Potremmo ritrovarci con arrivi da mezza Romania e Bulgaria se aspettiamo così a lungo».

Lo scenario, ancora probabile, di una “hard brexit” che veda il paese uscire fuori dal mercato unico e applicare draconiane misure di controllo degli influssi migratori dall’Europa, significa la fine della possibilità – automatica fino a prima che il paese si pronunciasse per l’abbandono di Bruxelles -, di entrare e lavorare, ma soprattutto di restare indefinitamente, come di usufruire del welfare nazionale.

Ciò avrebbe conseguenze devastanti per molti settori dell’economia di un Paese che si avvale massicciamente di lavoratori stranieri, qualificati e non: in particolare il comparto dell’edilizia, che dipende dal flusso di manodopera a basso costo che viene soprattutto da paesi dell’Est europeo, prima fra tutti la Polonia, seguita da Romania e Bulgaria, la cui interruzione acuirebbe una già grave crisi degli alloggi.

Per ovviare a questo inconveniente, il governo starebbe considerando l’introduzione di un sistema di visti e permessi di lavoro, che però precluda l’accesso ai sussidi. Si cerca così di mitigare l’impatto economico di un divorzio che, come ha ripetuto il cancelliere austriaco Kern, potrebbe aggirarsi sui 60 miliardi di Euro.

Intanto prosegue alla camera dei Lord il dibattito sul Brexit Bill, la leggina scritta di fretta dopo che la corte suprema aveva obbligato il governo a dibatterla in Parlamento: oggi i pari – camera anch’essa già orientata per il remain – voteranno sull’emendamento che vorrebbe confermati i diritti dei cittadini europei già residenti nel paese.

Un’alleanza bipartisan fra labour, libdem e alcuni ribelli conservatori, tra cui l’eurofilo Michael Heseltine potrebbe farlo passare.