Benoit Hamon, candidato socialista alle presidenziali francesi colloca il reddito di cittadinanza al centro del suo programma politico; Martin Schulz, candidato socialdemocratico alla cancelleria di Berlino promette di modificare Harz IV. Che è quella riforma della previdenza e del mercato del lavoro che vincola l’erogazione dei sussidi all’accettazione di un lavoro a qualsiasi condizione. Il parlamento europeo discute l’ipotesi (poi respinta grazie alla maggioranza conservatrice) di conferire un reddito di base ai lavoratori resi superflui dall’automazione.

E, in Italia, che cosa succede?

Da Renzi a Fassina, agli scissionisti del Pd tutti si contendono il «lavoro di cittadinanza», slogan coniato qualche tempo fa in polemica con l’omonimo reddito.

Di che cosa si tratta?

Molto semplicemente è la riproposta, in forma magniloquente, dell’impegno dello stato a creare posti di lavoro e dei cittadini ad accettarli senza discutere. Che nasconde però un inquietante elemento di coercizione.

La cittadinanza, e cioè l’inclusione nella sfera politica e sociale, viene fatta dipendere dallo svolgimento di un lavoro riconosciuto come tale e dunque alle condizioni stabilite dal «datore di lavoro»: per il profitto nel caso del privato, per l’idea di «utilità sociale» coltivata dalle burocrazie statali nel caso del pubblico.

Ciò che in entrambi i casi viene esclusa è quella libertà di scelta che sta alla base dell’esteso bacino di attività che arricchiscono la vita della società senza alcun riconoscimento né in termini politici né in termini di reddito. In un certo senso l’idea applicata ai rifugiati, i quali dovrebbero pagarsi il sostentamento ricevuto in attesa del diritto di asilo svolgendo (gratuitamente) lavori di pubblica utilità, viene estesa all’insieme della popolazione: se non lavori resti fuori.

Non è difficile capire che questo lavoro al modesto costo di un sussidio andrà a sostituire quello equamente retribuito. Ma vi è un aspetto ancora più insidioso: l’affermazione che la «vita attiva», fuori dal lavoro eterodiretto, non possa avere né voce politica, né esistenza sociale riconosciuta e retribuita è un puro e semplice dispositivo di controllo.

Sostenuto da un poderoso dispiego di ideologia. Quanto più il lavoro umano può essere ridotto nell’incrementare la ricchezza di una società, tanto più se ne esalta il significato morale, facendone la misura del valore etico dei singoli e il baricentro di identità semplificate e imposte.

Nella sinistra italiana è in corso un surreale dibattito sul fatto che il reddito di cittadinanza sarebbe incostituzionale, contraddicendo l’articolo primo della Costituzione. Quell’articolo, universalmente osannato, è tutt’altro che privo di pericoli.

Se la Repubblica è fondata sul lavoro, questo può significare che il singolo è rappresentato nel lavoro e il lavoro nello stato. Il che, a ben vedere, è il principio basilare dello stato corporativo. Converrebbe semmai domandarsi se quel «fondamento» corrisponda alla realtà presente o prevedibile. E se sia giusto privilegiare una funzione strumentale (il lavoro) sulle soggettività cui spetta esercitare la democrazia.

Fuor di retorica il «lavoro di cittadinanza» targato Renzi non dovrebbe essere molto distante dal workfare tedesco di Harz IV o dal finto «reddito di cittadinanza» sostenuto dai pentastellati (disponibilità a qualunque lavoro).

Più a sinistra, invece, risuona la parola d’ordine della «piena buona occupazione», dimentica del fatto che dove fu piena non fu mai buona, come il sistema sovietico e diversi altri esempi dovrebbero averci insegnato.

Dal new deal di Roosevelt ci separa una enorme distanza e una irriducibile differenza: se anche lo stato si volesse impegnare oggi in un vasto piano di investimenti pubblici questi non metterebbero in moto che una frazione minima del lavoro che fu mobilitato negli anni ’30. A meno di non ripristinare modalità artificiosamente arcaiche nella realizzazione delle opere o moltiplicarle, a basso costo, aldilà di ogni effettiva utilità sul modello degli ateliers nationaux nella Francia post rivoluzionaria.

Quanto alla nostra «Repubblica fondata sul lavoro» fu, per decenni, in larga misura fondata su una massiccia emigrazione senza la quale i conti dell’occupazione non sarebbero mai tornati.

Insomma, i modelli del passato non solo soffrono di un irrimediabile decadimento, ma non offrono neanche nulla di attualmente desiderabile.

Uscendo da queste improbabili genealogie il “lavoro di cittadinanza” presenta, però, una caratteristica perfettamente contemporanea: non fa nessun riferimento al reddito e alla qualità che dovrebbe garantire. La formulazione apre così a quel dilagare del lavoro gratuito, sottopagato e degradato attraverso il quale la «cattiva piena occupazione», si va realizzando, ora rafforzata anche dalla minaccia di un’esclusione dalla cittadinanza.

Su questo terreno lo stato etico e lo sfruttamento si incontrano e si compenetrano ai danni di ogni possibile scelta di libertà. Come sottrarsi a questa generale condizione di ricatto? Il reddito universale è una possibile risposta. Il «lavoro di cittadinanza» mi sembra, invece, uno strumento votato a rafforzarla.