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Cittadinanza, razzismo e privilegi

Cittadinanza, razzismo  e privilegiVoyageurs - Gli uomini in transito – gruppi scultorei di Bruno Catalano

Ius soli (e non solo) L’unico modello che si può contrapporre al razzismo è quello di una democrazia cosmopolitica, aperta e conflittuale, dove la cittadinanza non circoscriva una comunità predefinita ma divenga la posta in gioco nella lotta per l’espansione dei diritti

Pubblicato quasi 4 anni faEdizione del 13 ottobre 2020

L’idea che sia naturale negare e limitare i diritti di chi non è considerato membro della comunità nazionale – e che la sua esistenza vada normata in relazione alle esigenze di sicurezza – rimane l’assunto della riforma dei Decreti Sicurezza. Alla base c’è una valutazione differenziale del valore di alcune vite rispetto ad altre. Con la riforma, ci sono alcuni miglioramenti relativi ma molte norme rimangono comunque peggiori rispetto alla normativa precedente al governo Conte I, ad esempio per i tempi necessari al rilascio della cittadinanza a chi sia nato in Italia da genitori stranieri. D’altronde, la lotta contro le migrazioni si è sviluppata all’interno di uno stato nazione dove il meccanismo della cittadinanza come sistema di gerarchizzazione resta solido.

Cittadinanza nazionale e “razza” spesso vengono confuse, perché minacciosità e arretratezza diventano caratteristiche naturali proprie delle minoranze e di chi migra da alcuni paesi. E mentre la differenza nazionale si fa differenza razziale, la bianchezza emerge come elemento che qualifica la cittadinanza. Per bianchezza si intende non solo la pigmentazione ma un sistema di gerarchizzazione in cui la cultura diviene “razza”, stratificando le popolazioni anche al di qua della linea del colore. D’altra parte, la cittadinanza è da sempre al centro del conflitto tra istanze universalistiche e particolaristiche, tra quanti cercano di espandere i diritti di chi risiede e transita in un luogo e chi vuole difendere i veri cittadini, preservando la subordinazione dei migranti e accentuandone lo sfruttamento economico. La cittadinanza moderna pone fine ai privilegi di censo e progressivamente assicura diritti civili, politici e sociali ai membri della comunità nazionale.

Se da un lato la cittadinanza limita e contiene le diseguaglianze dell’economia di mercato per alcuni, dall’altro garantisce delle gerarchie basate sul genere, la classe e la bianchezza. La cittadinanza infatti, pur se compressa e trasformata all’interno del regime neoliberale, a sua volta va vista come un titolo ereditario e come un privilegio. Le vie per accedere alla cittadinanza nazionale dipendono da legami di sangue e suolo, del tutto contingenti e non dalla scelta di aderire ad una comunità. Pertanto, per quanto lo ius soli segnerebbe un notevole avanzamento per chi è nato qui, la cittadinanza continuerebbe ad essere un privilegio di status. Il modello della cittadinanza civica, dove si aderisce per scelta, e non per i rapporti di sangue o con il territorio (cittadinanza etnica), non è mai stato realizzato. E quando si dice di volerlo realizzare, nelle procedure per il rilascio della cittadinanza, le discriminazioni riappaiono. Infatti, gli unici soggetti di cui si verifica l’adeguatezza alla comunità sono gli stranieri per sangue. Chi nasce – o discende – da genitori italiani non è chiamato a dimostrare nulla per ottenere o mantenere la propria cittadinanza.

La cittadinanza permette di accedere ad una quota della ricchezza nazionale, la cui concentrazione si intreccia con la lunga durata dei processi coloniali e di scambio ineguale. Al di là degli effetti reali delle migrazioni su welfare e mercato del lavoro, la difesa dei confini della cittadinanza viene percepita come una difesa del proprio interesse. Dal momento che la cittadinanza si regge sul senso di solidarietà tra i suoi membri, per indagare le radici dell’attuale razzismo bisogna risalire al soggetto della nazione – il popolo -, con tutte le idealizzazioni e astrazioni selettive atte a configurarlo. Le origini di un popolo non esistono ma possono venir create ex post, facendo della contingenza un destino, la cui coerenza dipende dall’esclusione di chi non è membro della comunità così immaginata.

Il razzismo si situa pertanto all’interno di ogni costruzione dell’identità nazionale. I caratteri e le istituzioni – che vengono rappresentate come esito necessario dello spirito nazionale – di un popolo servono a legittimare l’assenza di una sostanza comune. Ed è facendo appello a questi tratti identitari, riprodotti dal nazionalismo banale delle istituzioni, che il razzismo riemerge come accentuazione della distribuzione discriminatoria delle risorse. Così, l’interesse a difendere prospettive che si sentono minacciate si lega all’identità nazionale vissuta dai cittadini come un elemento naturale. L’unico modello che si può contrapporre è quello di una democrazia cosmopolitica, aperta e conflittuale, dove la cittadinanza non circoscriva una comunità predefinita ma divenga la posta in gioco nella lotta per l’espansione dei diritti. La comunità emergerebbe così dal riconoscimento della reciproca vulnerabilità, al di là delle appartenenze preesistenti, aprendo la strada a delle forme di coesistenza non identitarie.

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