A Roma può capitare di assistere a degli spettacoli di rara intensità drammatica, che transitano come clandestine meteore nei circuiti «minori» delle sedi teatrali cittadine. É stato il caso di Città inferno, messo in scena purtroppo per soli due giorni, (il 13 e 14 dicembre scorsi), al teatro dell’Orologio e che non ha goduto dell’attenzione che avrebbe meritato.
Lo spettacolo cui abbiamo assistito, diretto da Elena Gigliotti – che è anche una delle attrici protagoniste – è liberamente ispirato a Nella Città, l’inferno (1958) un film di Pietro Castellani (che ne scrisse anche la sceneggiatura insieme a Suso Cecchi d’Amico dal romanzo di Isa Mari in cui l’autrice racconta la sua esperienza in prigione) con Anna Magnani e Giulietta Masina, e rappresenta l’inferno carcerario di sette donne.

 
L’epoca in cui si svolge la storia spazia liberamente dagli anni Quaranta del ‘900 ai giorni nostri, come in una sorta di eternità senza redenzione, che sembra riflettere l’immobilità temporale della reclusione. Mentre le vicende umane narrate riprendono e riecheggiano storie vere, pezzi di esistenze che si sono affacciate alla cronaca dell’Italia novecentesca per pratiche criminali e atrocità reali.
Lo spazio del teatro – e la strutturache somiglia a una caverna del Teatro dell’Orologio si è prestata ottimamente alla metamorfosi – si trasforma nella rappresentazione di un luogo claustrofobico in cui i corpi delle sette giovani attrici mostrano l’impeto incontenibile della libertà repressa. Niente forse più delle danze, dei dialoghi frenetici, delle urla delle protagoniste dà allo spettatore il senso della prigione, dei muri invalicabili in cui la vita carceraria le racchiude.
Il puro scatenamento dei corpi femminili, che mimano danze, violenze fisiche e sopraffazioni, gesti d’ira, scatti liberatori e talora l’elegia del canto, il richiamo malinconico al mondo di fuori, i sussurri della speranza di una prossima libertà.

 
Si tratta di un vero magma di esistenze che esplode nel chiuso spazio di una cella, all’inizio indistinto, pura energia vitale in movimento, ma che a poco a poco si dipana e articola mostrando distinte personalità individuali e diversi destini. Concitatissimi dialoghi, monologhi estraniati e talora deliranti, esplodono come lampi per confessioni sussurrate, delitti e atrocità commesse, infanticidi, assassini inspiegabili che appaiono come maledizioni decretate dal Fato. Lo spettatore scopre, come in un dramma greco, la dimensione tragica della colpa che grava su queste creature, imprigionate dal destino, dall’imprescrutabilità del caso prima ancora che dal carcere. Mentre un alone di impossibile redenzione circonda anche le figure che appaiono meno gravate dalla colpa, che anelano alla libertà, che la sentono prossima.

 
Pur nella diversità delle storie di vita di ciascuna donna, l’angusto spazio del carcere sembra accomunarle tutte nella fragilità della speranza. E occorre dire che la regia ha felicemente favorito l’individuazione dei profili femminili, anche grazie al sapiente uso dei dialetti, i diversi dialetti italiani, dal calabrese al veneto, che risuonano sulla scena e che rafforzano la carnalità della recitazione, legano i volti e le voci alle radici delle loro terre, che nel carcere ricordano i tempi della perduta libertà.