Roma è invasa dagli zombi, la popolazione è quasi azzerata. Katja e Secco, amici di Zero, stanno raccogliendo i superstiti e le scorte per scappare, quando Ermete gli punta contro il fucile: «Questa non sarà mai una terra di fottute apericene. Quantevveroiddio Rebibbia non sarà il nuovo Pigneto! Saremo noi a difendere questo quartiere da zombi e hipster». Ecco, l’equazione tra zombi e gentrification è il picco assoluto di Dodici, il fantasy di Zerocalcare. Secondo Ermete l’invasione di zombi è solo un complotto per cacciare la gente del posto e sostituirla con una popolazione molto più spregevole, quella dei bonghi e degli all-you-can-eat: «Su Wikileaks era già annunciato tutto il protocollo: zombi, evacuazione, ripopolamento con colonie di fuorisede, movida e apericene. Come credi che hanno fatto in Cina per le Olimpiadi? Era un test!».

E in effetti la gentrificazione è un processo non troppo lontano da un’invasione silenziosa, e si diffonde per contagio (come per gli zombi, stando a quanto afferma il poeta sommo, George Andrew Romero): in un caso da manuale come quello del quartiere Isola a Milano, per esempio, si può ricostruire un’evoluzione in quattro movimenti: prima quartiere di ferrovieri e di mala, poi arrivano gli artisti attivisti, che protestando contro il progetto dei grattacieli di fatto rendono il quartiere cool; a questo punto il circuito artistoide è soppiantato da nerd e hipster, i prezzi si impennano insieme ai grattacieli e le trattorie si trasformano in sushi bar e gin bar e palestre di yoga per bambini, e infine le masse di giovanissimi si impadroniscono di piazze e marciapiedi coi bonghi e gli infami cori di laurea, suscitando l’ira impotente degli hipster. I nuovi sono sempre alieni, e i vecchi abitanti si dividono in resistenti e complici.

MA LA RESISTENZA, in questi casi, è una posizione insostenibile, ai limiti del patetico. Le città sono organismi vitali, e in quanto tali instabili, dominate da processi migratori e alchemici, destinate a ribollire o a decadere. La stasi è morte. Certo, esistono quartieri storicamente resistenti, come la Sanità a Napoli o il Corvetto a Milano (anche se l’assedio di Prada comincia a stringere), ma si tratta di una resistenza che non ha nulla a che vedere con la preservazione dell’identità: è una difesa del territorio spontanea, quasi incosciente, fatta di energie umane, di un’egemonia costruita sull’affollamento, sull’ostilità, davanti alla quale i capitali immobiliari indietreggiano. Per il resto, tutto ciò che è urbano è perennemente oggetto di contesa tra ricchi e poveri, tra famiglie e nottambuli, antica borghesia e arricchiti, vecchi e nuovi migranti. Gli ultimi arrivati, ancora in una posizione di debolezza, trovano posto dove è più vuoto: ai margini, negli insediamenti informali, o in alcuni casi nei centri storici, se gli abitanti li hanno abbandonati per i quartieri residenziali, come a Palermo o a Genova. Nonostante la fatiscenza, questi casi di sostituzione sono i più fortunati, perché suscitano un basso tasso di conflitto e permettono di evitare la rovina di un tessuto urbano che, altrimenti, verrebbe raso al suolo e ricostruito in nome degli interessi fondiari, o eroso dal tempo.

UN CASO OPPOSTO, il più famoso di tutti, è quello di Detroit: la forza centrifuga messa in moto dal trasferimento delle fabbriche di auto nelle contee esterne è diventata un ciclone inarrestabile, provocando l’esodo dei neri dopo quello dei bianchi, e trasformando il centro in un vuoto monumentale pieno di rovine piranesiane.

MA DOPO LA CRISI del 2008, e più in generale con la crisi dell’industria automobilistica, anche i suburbia middle-class e upper-class hanno visto calare pericolosamente su di sé il degrado, e con esso – a una velocità inimmaginabile in Europa – cambiare drasticamente la composizione degli abitanti.
In quello che probabilmente è il suo più bel film, Gran Torino, Clint Eastwood impersona Walt Kowalski, vecchio razzista col fucile in mano, ex operaio Ford e veterano della Corea, che si ritrova solo nella sua villetta circondato da famiglie della comunità Hmong. Per metà film passa il tempo a chiamarli topi di fogna e a sputare per terra in segno di disprezzo sulla sua veranda hopperiana, senza capacitarsi che di tanti posti nel mondo quei musi gialli fossero venuti a popolare proprio il suo quartiere. Dopo un po’ comincia a sospettare di avere con loro più cose in comune che con i propri discendenti, e avvia un sodalizio con la famiglia vicina, diventandone l’eroe.
Certo, una ricomposizione così armoniosa del conflitto è ancora possibile perché l’invasione in oggetto è ancora un fenomeno mite, fatta da popolazioni che arrivano per abitare, cercano un posto. Ma che succede se gli invasori arrivano per governare, come gli extraterrestri di ogni buon romanzo di fantascienza?

NON PUÒ CHE FINIRE male. Nella Roma senza inverno di Cinacittà di Tommaso Pincio, il protagonista sceglie di restare in mezzo ai cinesi, che governano Roma da quando le temperature sono diventate equatoriali e le auto scoppiano da sole. Il suo piano è di vivere appartato, mangiando ravioli e osservando le ragazze di un gogo bar di piazza Vittorio, senza consumare e al riparo da qualsiasi relazione, anonimo in un mondo indifferente. Sedotto dal coltissimo Wang, finisce invece nella galera romano-cinese, accusato dell’omicidio di una prostituta, senza speranza di uscirne. «Dai cinesi non può venirti niente di buono» gli aveva detto un amico in fuga, tentando di convincerlo a emigrare al nord come tutti. Naturalmente, aveva ragione: niente è più spaventoso del governo dell’Altro.

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L’Almanacco 2017 di Alfabeta2 (edito da DeriveApprodi), a cura di Nanni Balestrini, Maria Teresa Carbone e Andrea Cortellessa (pp.400, euro 25), oltre alla cronaca di un anno, ha una parte dedicata agli incontri «fuori dal comune»: si va dai migranti agli extraterrestri, con contributi di vari studiosi.
In uscita nelle librerie per metà gennaio, è intanto disponibile online. Le illustrazioni della sezione L’invasione aliena sono di Luigi Ontani mentre quelle della parte sul 2016 sono di Women Artists of the World a cura di Manuela Gandini e Francesca Pasini.