La città, è ormai un luogo comune, è andata incontro a processi di trasformazione talmente radicali da risultare stravolta nella sua forma e nella società urbana che a sua volta produce. Capire il senso di questo mutamento, dargli un nome, una validità scientifica, è però il salto che sembra ancora mancare alle scienze sociali, vittime di una metodologia spesso carente. Guido Martinotti, uno dei più importanti sociologi urbani e purtroppo scomparso nel 2012, ci lascia in dote una testimonianza postuma che rappresenta il suo ultimo sussulto di rivolta contro questa superficialità sociologica che inquina le falde della ricerca scientifica. In primo luogo, «dobbiamo accettare il fatto che il feticcio urbano, il “prodotto città” sia sovraccarico di significati». Questa la prima grande difficoltà in cui ci imbattiamo quando parliamo di città e delle sue trasformazioni. Perché se le mutazioni di cui sopra appaiono nettamente percepite, non per questo viene meno una certa idea di città storicamente determinata: «se mostriamo a non importa chi l’immagine di una città qualsiasi, essa verrà immediatamente riconosciuta in quanto tale. Esiste però un’altra città che non può essere osservata, ed è la società urbana, cioè la città oggetto dell’indagine sociologica». Ad una forma città non corrisponde più una società urbana per come questa si è andata caratterizzando a partire dal XIX secolo. Ed è forse questo il cambiamento qualitativamente più interessante. Non è tanto la struttura urbana a subire evoluzioni decisive (se non nella perdita di confini), ma la società a questa legata. Tanto da indurre anche un interprete accorto e restio alla terminologia eclatante come Martinotti a parlare di «post-città» o, più avanti, di «meta-città». Qualcosa di epocale dev’essere allora intervenuto, che fatichiamo ad indentificare. Per farlo, il presupposto è individuare la città come «fatto eminentemente e irrimediabilmente sociale». Un dato pacifico per la sociologia, ma che svela il luogo dove sono intervenute le trasformazioni decisive in cui siamo immersi: nella società, non nella sua struttura architettonica e urbanistica (anche se questa dialoga coi cambiamenti sociali in atto). Nel merito, Martinotti spiega che le tre variabili (dimensione, densità ed eterogeneità) attraverso cui riconoscere una città non sono più servibili. C’è bisogno d’altro, perché si è andati molto al di là (meta) della classica morfologia fisica della metropoli di prima generazione, al di là del controllo amministrativo tradizionale di enti locali sul territorio, e al di là del tradizionale riferimento sociologico degli abitanti. La città, ci indica Martinotti, è sempre più abitata da «popolazioni non residenti»: pendolari, turisti, “metropolitan buisnessperson”, city users che deformano il concetto di cittadinanza, mandando in tilt il processo storico per cui la città è politicamente amministrata dai voleri di chi la abita, ma (oggi) economicamente gestita da chi la utilizza senza risiederci. Un fatto, questo, che incrina i diritti di cittadinanza collegati alla dimensione urbana. I residenti, estromessi dalla città economicamente rilevante (il centro e le zone inerenti), vivono la periferia, che però è a sua volta esclusa da processi di integrazione economica (utilizzata, al più, come supporto logistico alle necessità del centro). Il rapporto tra centro e periferia è viziato dunque da un cortocircuito epocale: la politica è estromessa dal controllo sulla «città consolidata», mentre la periferia difficilmente troverà mai forme di consolidamento, sia esso urbano, sociale o politico. Una contraddizione che manda in frantumi l’idea di modernità posta alla base dello sviluppo urbano dei due secoli precedenti. Tutto questo non porta a una «dissoluzione» della città, ammonisce Martinotti, ma a una sua «dissolvenza», una traiettoria che va da una forma nota a una che ancora non lo è del tutto. Ma il libro non è solo il bilancio di uno scienziato sociale alle prese col suo inafferrabile oggetto di studio. E’ anche un’ironica riflessione sulle distorsioni sociologiche, sulle mode filosofiche e letterarie inerenti al fenomeno urbano, sulla scarsa (o nulla) scientificità dei maître a penseer mediaticamente più brillanti (Marc Augé, un esempio tra i molti citati). Un monito per salvaguardare la sociologia urbana dai suoi stessi limiti, e per dare corpo e sostanza a una disciplina oggi, almeno in teoria, decisa per comprendere le sorti del nostro futuro.