Se sei un giornalista in cerca di interlocuzione con il politico a 5 Stelle, ti capiterà prima o poi di mandare un messaggio all’aspirante ministro del governo pentastellato. Il quale, prima di proferire verbo, risponderà soltanto con una parola: «Casalino». Significa che per intervistare il soggetto in questione bisogna chiedere il nulla osta a Casalino (Rocco). Quest’ultimo dalla sala macchine dosa le autorizzazioni, gestisce le esternazioni, produce una gerarchia interna ai grillini (stabilendo chi deve diventare noto) ma anche una graduatoria dei giornalisti graditi. Luigi Di Maio si spinse oltre, arrivando a pubblicare sul suo profilo Facebook una lettera inviata al presidente dell’Ordine dei giornalisti con tanto di elenco dei nomi dei giornalisti considerati nemici. Una lista che pare ricordare quelle di proscrizione.

«I media dovrebbero essere imbarazzati e umiliati, tenere la bocca chiusa e per un bel po’ solo ascoltare»: sono parole del suprematista bianco (e manovratore di fake-news a scopo elettorale) Steve Bannon, che attaccò il sistema dell’informazione all’indomani dell’elezione di Donald Trump. Gli stessi concetti, in Italia, vengono ripetuti da anni da Beppe Grillo e dai suoi portavoce nelle istituzioni. Fu Grillo, dal suo blog, a lanciare anatemi quotidiani contro il «giornalista del giorno», con tanto di foto e identikit a uso e consumo delle vampate d’odio istantanee della rete. Nella vulgata grillina il ruolo dei lavoratori dell’informazione è ormai inutile, residuale, puramente parassitario. Non si tratta di pulsioni puramente autoritarie, ma di un fenomeno più complesso. La narrazione pentastellata ha ereditato una (sacrosanta) indignazione verso certa stampa asservita ma soprattutto l’ingenua utopia degli anni Novanta (venticinque anni fa) secondo la quale davanti ai nostri schermi ci sarebbe bell’e pronta una società in grado di autonarrarsi grazie alla rete. Insomma, la mitica disintermediazione sarebbe all’opera anche in questo settore. Peccato che non sboccino dieci, cento, mille testate e che in questo caso fiorisca tutto nel recinto di un solo blog, le cui chiavi d’accesso sono gelosamente custodite dai vertici del M5S.

Il fatto che Reporter Sans Frontiers smentisca Grillo, menzionandolo come vincolo alla libertà di stampa invece che come detonatore di energie, fa il pari con un altro dato di fatto evidente a chi compulsa davvero i numeri e non si ferma ai titoli: i paesi in cima alla citatissima graduatoria sono esattamente quelli che destinano più sovvenzioni pubbliche al giornalismo e all’informazione, voce di spesa da gestire meglio e incrementare che invece i grillini vedono come fumo negli occhi. Eppure, anche alla Casaleggio Associati sanno bene che la materia prima sulla quale campano non si genera spontaneamente. Qualche anno fa, il Pew Center ha monitorato per una settimana l’ecosistema informativo di una città medio-grande degli Stati Uniti come Baltimora, tenendo d’occhio col sismografo l’attività di profili twitter, blog, giornali locali, televisioni e radio. La ricerca ha dimostrato con millimetrica precisione che la stragrande maggioranza delle storie circolanti nell’infosfera vengono prodotte con grande fatica dai professionisti del settore, seppure sempre più precari. Gli altri attori si limitano a commentarle, le notizie. A chiosarle e rimetterle in circolo, magari traducendole in meme semplificatori (“Vergogna!!!”), lanciati all’uditorio affacciati da vistosissimi (e gratuiti) avamposti social. Questo primato resiste nonostante di anni di precarizzazione del settore, un periodo in cui, solo per dirne una, il rapporto di forze tra giornalisti e addetti stampa si è ribaltato in misura impressionante.

Fino agli anni Ottanta ogni giornalista aveva alle calcagna meno di un impiegato alle pubbliche relazioni. Ora un povero cronista è tallonato mediamente da ben sei press agent. Come se per ogni redattore (per di più precario) ci fossero sei Rocco Casalino.