È un’opera sperimentale La fanciulla del West di Giacomo Puccini, andata in scena per la prima volta al Metropolitan di New York nel 1910, con la sua sintesi di tradizione e ricerca del nuovo. La trama amorosa è stereotipa: lui, lei e l’altro; tenore, soprano e baritono; amore a prima vista tra i primi due, un bacio a sigillarlo con tanto di citazione quasi letterale (verbale e armonica) da Otello di Giuseppe Verdi («Un bacio, un bacio, un bacio solo»), un finale insolitamente lieto con congedo dalla patria che evoca quello di Aida («Addio, mia dolce terra, / Addio mia California!»). Attorno a tutto questo, una drammaturgia inconsueta: una sola donna in scena (Minnie, proprietaria del saloon Polka), contesa tra due uomini (lo sceriffo Jack Rance e lo straniero Dick Johnson, in realtà Ramerrez, bandito per disperazione) e supportata da un coro tutto maschile, vero e proprio quarto personaggio, il cui rapporto con Minnie è il nocciolo dell’opera; niente arie per i protagonisti, solo ariosi e dialoghi.

Un unicum nella storia dell’opera, che trova un analogo solo in un film di molti anni dopo, anch’esso ambientato nel west, dove la protagonista, come quella di Puccini, è la proprietaria di un saloon: Johnny Guitar (1954) di Nicholas Ray, con l’iconica Joan Crawford.

Proprio alla tradizione del western, cui pure, come dice inequivocabilmente il titolo, appartiene la pièce teatrale che è alla base dello sgangherato libretto di Guelfo Civinini e Carlo Zangarini (The Girl of the Golden West di David Belasco, già autore di Madame Butterfly), si ispira il regista Robert Carsen per il suo allestimento, che si apre, sulle note del preludio, con la proiezione su uno schermo cinematografico del finale di Sfida infernale (1946) di John Ford, continua citando nel secondo atto Il vento (1928) di Victor Sjöström e si chiude davanti al cinema Lyric in cui viene proiettato un film intitolato The Girl of the Golden West.

L’inverosimiglianza del finale lieto di Puccini trova così un correlato compiuto e suggestivo nella trasformazione dei due protagonisti in divi del cinema anni ‘40, che si mostrano nella loro vera sostanza (quella dei sogni e dell’immaginario collettivo) e chiedono di essere liberati, un po’ come Prospero alla fine della Tempesta di William Shakespeare. La direzione di Riccardo Chailly è ferma, rigorosa nel non concedere nessuno spazio a facili effettismi, quanto attenta a sottolineare le arditezze timbriche e armoniche della partitura di Puccini. Il tenore Roberto Aronica, il baritono Claudio Sgura, i comprimari e l’intero coro diretto da Bruno Casoni si disimpegnano egregiamente. Si trova in difficoltà Barbara Haveman, che ha sostituito all’ultimo minuto la rinunciataria Eva-Maria Westbroek, sia perché a tratti non conosce perfettamente la parte, sbagliando diversi attacchi e alcune battute, sia perché la sua voce nel registro centrale è così flebile da diventare inudibile.