Percorrendo le strade della Cisgiordania centrale, ammirando le basse e rotonde colline palestinesi, Deir Samaan appare all’improvviso. Ed è una piacevole sorpresa. Piccolo ma suggestivo, con una piscina aperta, questo sito archeologico conferma ai visitatori come questa terra sia stata lungo tutta la sua storia un crocevia di popoli e religioni, di imperi e regni che nascevano e si sfaldavano. Deir Samaan inizialmente era una fortezza, del IV secolo d.C., e proteggeva un’importante strada che portava a Neapolis (Nablus). Poi fu trasformata in monastero bizantino che prende il nome da San Simeone. Simile la storia di Deir Qal’a, a circa un chilometro e mezzo, anch’essa fortezza nel periodo tardo romano e poi un monastero durante il periodo bizantino. Nei due secoli successivi questi due e altri monasteri in Palestina servirono a proteggere i villaggi cristiani durante le insurrezioni dei Samaritani, represse nel sangue dai Bizantini e dai loro alleati, i Ghassanidi, una tribù giunta dalla penisola araba e convertita al Cristianesimo.

 

Deir Samaan (foto Biblewalks)

Secondo alcuni questa antica «sollevazione» – i Samaritani sono di origine ebraica – avrebbe spinto Israele a confiscare Deir Samaan e Deir Qal’a. Perché proprio ora si domandano altri. Qualunque sia la risposta, è chiaro che se per il momento resta congelata l’annessione a Israele di ampie porzioni di Cisgiordania, il piano del premier Netanyahu prosegue per altre strade. E l’archeologia è una di quelle da sempre più battute. Immediate, ma sino ad oggi inutili, le reazioni palestinesi. «È una mossa illegale ed immorale quella fatta da Israele. Quei due siti archeologici sono parte della storia e della identità del popolo palestinese, evidenziano le sue radici storiche. Si tratta di un saccheggio, di appropriazione culturale», protesta Hanan Ashrawi, del Comitato esecutivo dell’Olp e in passato esponente di punta della società civile in Cisgiordania. Analoghe le condanne di archeologi ed esperti palestinesi. Da parte sua l’Amministrazione Civile israeliana, che si occupa degli affari civili nei Territori occupati per conto dell’Esercito, ha spiegato la confisca con «necessità relative alla preservazione dei resti archeologici».

 

Il sito di Deir Samaan circondato da colonie israeliane

 

Più volte in passato gli archeologi civili e militari israeliani hanno descritto il loro lavoro nella Cisgiordania occupata come utile a proteggere importanti ritrovamenti storici dall’abbandono e dai ladri palestinesi di reperti antichi. Una giustificazione respinta al mittente più volte dai palestinesi che si ritengono assolutamente in grado di difendere il loro patrimonio storico ed archeologico. Aggiungono che la sorte dei siti di Deir Samaan e Deir Qal’a in realtà è stata segnata dalla vicinanza alle colonie israeliane in quella zona. In sostanza sono già stati annessi a Israele in vista di una futura attuazione del piano generale di annessione degli insediamenti coloniali in Cisgiordania. Di recente le autorità israeliane hanno mostrato «attenzione» anche per altri siti, tra cui Sebastia e le Terrazze di Battir (patrimonio dell’Unesco), suscitando altre proteste palestinesi. Hamdan Taha, ex responsabile per le antichità dell’Autorità nazionale palestinese, ha accusato più volte in questi anni le autorità israeliane di appropriarsi illegalmente di oggetti antichi, peraltro facendo scavi sotto la cappa dell’anonimato per archeologi e specialisti impiegati nei lavori. «Ciò fornisce loro un quadro giuridico per un palese saccheggio» ha denunciato Taha «e fa dell’archeologia non una ricostruzione scientifica del passato ma una caccia al tesoro».

Da sempre l’archeologia è prioritaria in Israele. Importanti esponenti del movimento sionista e alti dirigenti politici e militari israeliani sono stati o sono degli archeologi. La ragione è semplice. Qualsiasi ritrovamento di reperti antichi ebraici nella Palestina storica avvalora la narrazione israeliana e, quindi, il diritto al controllo del territorio, incluso quello palestinese sotto occupazione militare. Israele, spiega un rapporto della ong di archeologi progressisti Emek Shaveh, ha iniziato a interessarsi ai siti antichi in Cisgiordania subito dopo averla occupata nel 1967. «Per il dipartimento archeologico (Soa) dell’Amministrazione Civile, l’archeologia funge anche da strumento per la confisca di terreni (palestinesi)…L’uso di pretesti archeologici inoltre viola il diritto dei palestinesi alla cultura perché permette a Israele di appropriarsi di beni appartenenti al territorio occupato». Il controllo dei siti e l’attività archeologica, aggiunge Emek Shaveh, sono destinati a dimostrare e a rafforzare l’affinità storica, religiosa e culturale del popolo ebraico e dello Stato di Israele e ad eliminare il patrimonio e le narrazioni storiche degli «altri».