Ideato poco più di 30 anni fa, il Rossini Opera Festival di Pesaro si conferma negli anni impresa di evidente successo. Si può anche allestire una sorta di scalcinata commedia all’italiana, come quest’anno è stato fatto per Il Turco in Italia, e gli applausi saranno tali da essere interdittivi di qualsiasi perplessità. Anzi s’è giunti al ridicolo di chiamare in causa Fellini e il così detto Marlon Blando nostrano, ottimo attore del resto, là dove al massimo la parodia poteva riguardare un musicarello con Carotenuto e rincalzi della tv dei tempi di Cugat e della Laine .

È un peccato però perché Il Turco è un’opera di qualità assai più riguardevole che non sia quella del Ciro In Babilonia, altro titolo della terna di quest’anno, che invece è stato affrontato con intelligenza e nello spettacolo anche migliorato, a parere di chi assistette alla realizzazione di quattro anni fa. Questa e quella sono pensate in qualche misura come un gioco col cinema. Capita facilmente quando uno strumento dei media decade, che ritorni dal mondo perduto in un’assurda ricerca. Nel Turco, come detto, si tratta di una pagliacciata; nel Ciro di un gioco col cinema muto, o comunque d’antan.

Sulla garza scorrono i segni di una pellicola consumata, poi si rompe e un paio di volte entra in scena il proiezionista, ma l’aspetto divertente è dato dall’incredibile somiglianza di Ewa Podles, il contralto che dà la voce a Ciro, col Belushi di Blues Brothers nelle scene in cui con lo sguardo vuol sedurre la donna abbandonata che lo perseguita. È difficilmente comprensibile come la stessa persona abbia firmato lo sciagurato Turco e il Ciro da cineforum.
L’altro titolo del cartellone con le repliche in corso era La donna del lago. È questa un’opera assai strana, che Fedele D’amico, importante musicologo e un po’ coscienza critica, non indiscussa però, della renaissance rossiniana, trova di difficile collocazione persino in quel proto romanticismo in cui la colloca la banalità dei giudizi ripetuti da un saggista all’altro, senza cercare mai verifica.

È un’opera, la prima forse, tratta nel teatro italiano da Walter Scott, ma del suo paesaggismo romantico qui non rimane più niente, nemmeno i cenni visibili di un lago incassato tra alte montagne, alberi eccetera. In effetti non ce n’è bisogno alcuno. Non c’è una vicenda che possa essere raccontata, ovvero c’è, ma non può appassionare nessuno. È come il Locus Solus di Raymond Roussel, non per il contenuto, ma al pari di Nuove Impressioni d’Africa, in origine, Comment j’ai écrit certain de mes livres (1935), un abbandonarsi del giovane Gioacchino alla sua accanita musicalità e all’automatismo non descrittivo della fantasia creativa. È da credere nessuno sia in grado di affermare se Rossini avesse una qualche intenzione di opporsi all’astrattismo che è della musica, cercando di piegarla al realismo. Quel che si può dire è che questa «battaglia» tra astrazione e figurazione è qualcosa di là da venire. Nella commedia al musicista piace giocare a illustrare e parodiare i caratteri; allontanandosi da essa, vuoi nel senso del Tancredi o in quello della Gazza ladra, cresce in lui il piacere di giocare con gli stereotipi. Li ritroviamo in azione con una certa frequenza: sono i suoi temi.

Ne La Donna del Lago è come se un succedersi di stazioni fosse quel che regge il racconto: questa è la ragione per cui i registi non sanno che fare e non vanno al di là di mettere in scena quel che il libretto dice. Dovrebbe nascere dalla lettura del testo musicale, se ci si riesce, il senso del racconto. Ebbene, la cosa è un po’ difficile, perché la musica dà la sensazione che ci siano questioni di spazi, del risonare dei suoni, piuttosto che non di quel che fa un personaggio o un altro.
Lo spettacolo inizia debolmente, con Florez che sparacchia acuti a caso, imitato, in seguito, da Marco Mimica. L’orchestra e il coro del Comunale di Bologna rispondono bene alla bacchetta di Mariotti (nella Donna) e a quella di Bignamini (nel Ciro).
Il direttore d’orchestra del Turco, Speranza Scapucci, dovrà cercare di evitare ensemble raffazzonati quale l’ipotetica «filarmonica Gioachino Rossini» che qui s’è ritrovata in buca.