La lingua di asfalto sembra interminabile, le roulotte sobbalzano sulle giunture dei ponti, i bambini si lamentano perché vorrebbero dormire. Golfi e mare che si perdono all’orizzonte, profumo di iodio e salsedine; siti industriali che sbuffano fumo, profumo tossico; speroni di roccia s’innalzano sugli Appennini lucani o sulle Dolomiti, animali che pascolano, profumo di humus e funghi selvatici. Il riverbero delle luci artificiali della città si intravede all’orizzonte, l’oasi è a qualche chilometro di distanza.

Il circo è una città viaggiante, «Una città nella città», afferma Vinicio Togni, un microcosmo fatto non solo di acrobati ed artisti, ma di ingegneri, idraulici, elettricisti, tecnici del suono e delle luci e meccanici che si muovono all’unisono. Vinicio, il direttore del circo, di volta in volta deve sondare il luogo dove verrà montato il tendone per la tappa successiva, la conformazione del terreno che, se più duro e leggermente più alzato, aiuta per il deflusso delle piogge senza il pericolo che la pista si allaghi. Sottigliezze che durante lo spettacolo possono fare la differenza. La pandemia è stata dura, soprattutto per i circhi, carichi di nomadi contemporanei lungo arterie stradali già prestabilite.
Un camion con sopra la tenda del circo si posiziona al centro, Vinicio manovra una gru elettrica che solleva verticalmente la testa del tendone, ma ci vuole molta forza e resistenza fisica per allacciare le corde, per piantare i lunghi picchetti dei bordi esterni, la struttura prende forma e la magia della tenda a fine giornata è già visibile. È un lavoro estenuante terminerà solo nei due giorni successivi, quando la biglietteria, gli spalti, il sipario, il palco e gli addobbi saranno terminati.

C’è uno spirito di collaborazione, di aggregazione e di amicizia, si sente parlare spagnolo, italiano, indiano, bangladese, inglese, russo … un melting pot multiculturale che è alla base del circo e della storia umana. Il circo ha sempre avuto, una porta aperta per tutti, chiunque si può unire alla carovana, anche se non acrobata od artista, ogni persona volenterosa può essere d’aiuto.

Il ventriloquo
È il caso di Giampaolo Maltese, siciliano di Palermo, fin da piccolo voleva far parte del circo per diventare un nomade anche lui. «Sono stato fortunato, era il mio desiderio da quando avevo 3 anni, da giovane nessuno mi prendeva sul serio, ma oggi gli amici d’infanzia mi invidiano perché faccio quello che ho sempre desiderato fare. C’è chi voleva diventare calciatore, cantante o attore e magari si è dovuto accontentare di un lavoro rispettabile ma comune, invece mi sento realizzato», afferma Maltese che non è un circense di famiglia. È ventriloquo e ha dovuto apprendere tutte le tecniche per poter maneggiare l’arte, un duro lavoro che prende tante energie mentali in modo da poter «affrontare ed assorbire» il pubblico. «Non è stato facile. Quando ero piccolo vedevo Vinicio ritornare con circo in città ogni anno, era il mio idolo e oggi trovo incredibile di poter lavorare al suo fianco», continua Maltese. Non è sempre facile, il circo funziona tutti i giorni, anche quando è chiuso gli artisti si devono allenare. Il ventriloquo, come il clown, non è un acrobata che si può isolarsi anche dentro lo show, è assorbito mentalmente.

Il clown
«Il clown è il numero 10, è l’anima del circo», afferma Leonardo Valle, cileno di Santiago che ha iniziato a lavorare nel circo quando aveva 9 anni». Come dargli torto? Non esiste circo senza un pagliaccio, è come un direttore d’orchestra, il metronomo dello spettacolo: riempie le pause, al momento opportuno distrae il pubblico, è in scena dall’inizio alla fine dello spettacolo. «Con il tempo sono diventato clown, per poter comunicare sensazioni e sentimenti. Un acrobata, se si allena bene, potrà ottenere un ottimo risultato, il clown vive con l’energia del pubblico, deve dominare lo spettacolo e maneggiare l’emozione delle persone, è l’anima, il cuore pulsante dei circensi. Da piccolo ero seduto sugli spalti e guardavo mio padre insieme a tutti gli altri pagliacci ma a quell’età non avrei mai pensato di divenirlo, però avevo capito quanto il clown fosse importante nello spettacolo: per comunicare sentimenti, situazioni sociali e perché ha qualcosa di magico da trasmettere. Solo questa figura circense ha la capacità di entrare nei cuori dei bambini, che li affascina», afferma Valle.

Valle mette in evidenza la difficoltà che un circense sudamericano lavorando in Europa. Il pubblico è differente, bisogna entrare nella sua psicologia, nella sua cultura, nel suo modo di divertirsi, così il clown si ritrova ad essere un po’ psicologo, sociologo e antropologo. «L’America Latina è costituita da un popolo giovane, reattivo, istintivo, a volte più superficiale però è eccezionale. L’Europa è più tradizionale, ma non per questo meno qualitativa come pubblico, ho l’impressione di entrare dentro una casa e non in una fiesta, ci sono molti adulti che sanno quello che stanno vedendo. È una psicologia differente, sono un circense biculturale!», ride di sé Valle, ma forse afferma una realtà imprescindibile che riguarda tutti i circensi, o tutti i viaggiatori: la multiculturalità individuale che permette di capire e di entrare dentro altri mondi, proprio come quando si entra nella casa di uno sconosciuto. Così il circo diventa trasversale sotto molti aspetti: culturale, generazionale e sociale.

Il trapezio
José Diaz con lo sguardo severo osserva i trapezisti allenarsi, borbotta tra sé ciò che sbagliano, corruccia le sopracciglia, scatta in piedi per l’emozione del volo perfetto di Christian, i suoi occhi brillano di un passato glorioso, si arrabbia per la mancata presa e la caduta sulla rete. Ha 69 anni, spagnolo, circense di famiglia, ha iniziato a 7 anni. «Sono i tempi con i quali oscillano che sono sbagliati! Le funi di quel trapezio sono troppo lunghe, a volte bastano pochi centimetri per sbagliare l’esercizio, una manciata di millesimi di secondo e la mano sfugge», esclama Diaz, osservandoli riguarda il film della sua vita. «Per me il trapezio era tutto, lo è stato per 50 anni e rimane sempre un’emozione, mi ribolle il sangue nelle vene in questo momento. Ho iniziato come funambolo poi a 14 anni sono passato al trapezio, a 15 facevo già un doppio ingruppato e un doppio in plancia, poi a 18 ho fatto il triplo, infine sono passato a fare il catcher, quello che afferra il trapezista. Quando vedo Christian rimango a bocca aperta e mi viene la pelle d’oca. Penso che i trapezisti siano il numero rappresentativo di un circo, anche se è una categoria che andrà a scomparire: troppo sacrificio, richiede ore e giorni continui di esercizio, bisogna iniziare almeno tra i 14 e i 18 anni, dopo è già tardi». José Diaz punta il dito sugli smartphone, tablet, playstation e pc che risucchiano l’attenzione dei giovani e la voglia di aspirare a qualcosa che vada più in là di uno schermo. «Se hai questo in mano tutto il giorno fino a notte inoltrata la tua testa non è pronta per fare quel numero lì», José indica in alto dove Christian, Giovanni, Giorgia, Angelina e Juan stanno provando.

«Ho iniziato nel circo quando avevo 8 anni come pagliaccetto, poi ho cambiato per il trampolino, quindi al trapezio e poi ho iniziato con le moto, però tra tutti questi amo il trapezio, il mio cuore sta sempre lassù», afferma Christian Quezada, cileno di 22 anni, indicando la cupola del tendone. «Volare, quando lasci il manico e vibri nell’aria, quel momento sospeso è ciò che amo e mi appassiona. Forse è come per la persona a cui piace sentire l’adrenalina e allora va sulle montagne russe, quando si avvia alla discesa ripida e i binari corrono sotto gli occhi si sente come un formicolio, per me è la stessa cosa quando lascio la barra d’acciaio, sempre che il catcher mi afferri, altrimenti sarebbe solo un salto nel vuoto».

A 16 anni Christian andò a lavorare nei circhi in Cina per 4 anni, è lì dove si è raffinato nell’arte del trapezio. Christian nel circo Togni ricopre diversi ruoli tra cui quello di pagliaccio. «Il clown è una figura molto complicata, far ridere la gente è la cosa più difficile al mondo. Non si può andare a scuola per impararlo, ci si nasce, devi essere una persona che ha un certo tipo di carattere e di allegria che poi si porta in scena, non tutti sono capaci. Quando il sipario si apre è un altro mondo, deve cancellare la memoria, si concentra in quello che deve fare. Per me che sono sul trapezio è differente, mi concentro e vado avanti», conclude Christian.

La moto nella sfera
Juan Inostroza, 28 anni cileno, è la quarta generazione di circensi. «Mi piace il mio lavoro, soprattutto quello delle moto nella sfera di metallo, il globo, inoltre adesso sono ritornato a fare il trapezio. All’inizio è stato duro ma dopo vari allenamenti ho ripreso il ritmo. Ieri durante le prove c’è stato un miglioramento, Christian ha fatto un salto molto alto e sono riuscito a prenderlo, bellissimo. Certo, io lo afferro, ma lui vola, posso solo immaginarmi la sua sensazione!», Juan sta lavorando per diventare catcher, poi continua. «Il circo è qualcosa di speciale, in Cile un detto dice che ti porta via il sangue, ci sono persone che ne sono catturate e altre a cui non piace: così diventano tecnici, meccanici, aiutanti … ma non circensi. Per me non è propriamente un lavoro, perché faccio e sono pagato per quello che mi piace. Voglio continuare a viaggiare e scoprire altri posti, ho amici da tutte le parti del pianeta, forse ci rivedremo o forse no, ma questa è una caratteristica del circo: niente è certo», afferma serio Juan.
«Christian aveva imparato ad andare nel globo di metallo in solitaria, quando ci incontrammo in Cile iniziammo ad allenarci insieme. Ora lo facciamo a memoria. Con tre moto devo controllare bene gli altri motociclisti perché nella sfera tutto si mischia. Quando ci fermiamo si avverte una sensazione unica e forse lavoriamo solo per questo momento: l’adrenalina e l’applauso del pubblico. Devo essere sincero, non mi vedo invecchiare nel circo, quando non avrò più le forze per continuare mi piacerebbe aprire un’officina ed essere meccanico di motociclette: aprirle e smontarle per poi ripararle mi sembra qualcosa di magico», conclude Juan.

Angelina Federchenko, ucraina di 23 anni, si posiziona al centro della sfera, un sorriso contagioso, la moto di Christian sbuffa fumo dalla marmitta, le sue ciglia posticce battono come farfalle al rombo del motore a due tempi. La moto parte, prende velocità, gira come una scheggia impazzita da un lato all’altro della circonferenza del globo, il pubblico rimane in sospeso, la suspense e la paura si mischiano. Angiolina rimane impassibile e continua a sorridere, una maestra di scuola elementare che accompagna la propria classe allo spettacolo si mette le mani tra i capelli, poi si chiude la bocca con il palmo per trattenere un grido. Il gas diminuisce, la forza centrifuga si allenta, Christian oscilla ancora un po’, prende la mano di Angelina, i loro sguardi s’incrociano prima che lei esca dalla gabbia metallica. Lo scroscio quasi violento degli applausi è una liberazione e un’estasi che il pubblico condivide con i due circensi.

«Mi sono sorpresa da sola per l’esercizio della sfera, ero convinta che mi sarei spaventata a morte invece. Bisogna conoscersi bene e discutere tutti i dettagli insieme, in questo modo si minimizza il pericolo, non è poi così difficile come può sembrare da fuori. Lavoro nel circo da 5 anni, sono già stata in Cina e in Cile. Iniziai fin da piccola con la danza, sono sempre stata innamorata degli spettacoli e delle performance. Un’amica mi mandò con un contratto in Cina dove ho imparato molte cose nell’ambito circense, ogni giorno c’è qualcosa da apprendere. Mi hanno sempre affascinato i numeri volanti, per questo lavoro sodo con Elena e Giorgia. Il circo è gente, tensione, emozione, adrenalina, preparazione, ritmo, viaggio, idiomi diversi … mi piace tutto di quest’ambiente», afferma convinta Angelina. «Faccio lo spettacolo con i cavalli insieme a mio fratello, le evoluzioni al trapezio con Angelina ed Elena, sto imparando ad andare sul trapezio aereo e spero di poterlo portare in pista al più presto perché è un esercizio appassionante, adrenalinico e scenografico spero che possa diventare una delle mie professioni» parla convinta Giorgia Togni, 18 anni.

«Il circo è la mia vita, mi sento a mio agio ed è ciò che mi piace fare sebbene studi relazioni internazionali, vorrei intraprendere un percorso universitario e non escludo possibilità lavorative diverse in futuro. Il covid è stato un periodo strano e particolare come per tutti, ci ha preso tutti in contropiede. È stata una chiusura emozionale imponente, una forzatura nei sentimenti e nella passione, perché senza il nostro lavoro c’è stato tolto un pezzo dell’anima. Noi viviamo in comunità e siamo circondanti da persone, il livello umano non si è mai chiuso ed è stata una fortuna. Però non ci vedevamo per i soliti raduni serali, ci chiudevamo in noi stessi per ragionare e meditare su quello che stava succedendo attorno, lavorativamente, personalmente … intimamente», conclude Giorgia.

Il circo è reale, è uno spettacolo che si vive sul momento, è un impegno continuo di allenamenti e di concentrazione che bisogna mantenere durante lo spettacolo, non esiste finzione come può esserci in TV o al cinema. «La pista è un cerchio magico, quando vi si entra la molteplicità del pubblico diventa un’unità: il pathos, l’emozione, la suspense vengono vissuti come un corpo univoco, le voci del singolo individuo si sommano e sembra di sentire una sola voce», descrive Valle. La prima serata è terminata, gli artisti sono esausti, tra un’ora si ricomincia daccapo per il secondo spettacolo, nella stanchezza fisica e mentale l’acrobata Juan Inostroza prepara il suo trampolino, il pagliaccio Valle ancora sudato gonfia il palloncino, ricarica lo spruzzatore di acqua, sistema le uova finte nella propria confezione, non c’è un attimo di tregua.

Quando il tendone del circo è vuoto e si sente appena un vocio esterno si ha l’impressione di essere in un luogo religioso in attesa che la funzione abbia inizio. Si incrociano il sacro con il profano come nell’antichità, lo dimostrano le statuette di acrobati, di mimi e di giocolieri del museo Marta di Taranto, perché l’arte circense era destinata «… sia a forme di spettacolo pubblico complementari alle offerte del teatro, sia ad esibizioni in ambito privato in manifestazioni di carattere religioso».

L’ultimo spettacolo è terminato, un nonno prende sotto braccio il nipote e s’incamminano verso l’uscita, le luci si spengono, il sipario si chiude sull’intera città, i tecnici e gli artisti smontano l’80% degli attrezzi e degli spalti. Domani il tendone collasserà di nuovo sul camion, lo spazio occupato tornerà ad essere vuoto, ma tutte quelle persone che hanno visto lo spettacolo lo riempiranno con i loro ricordi e con le loro emozioni. «Da piccolo vedevo il circo in un punto, poi quando il circo sbaraccava era come se avessi perso qualcosa, lasciava non solo un vuoto fisico», afferma Leonardo Valle. Le famiglie del circo si preparano per la nuova migrazione verso un altro centro urbano, ma il migrante è spesso diviso in due: una parte nella terra d’origine e l’altra nella terra che lo ha accolto; invece il circense è un viaggiatore, un’unità che porta se stessa nel mondo. I bambini sono eccitati di incontrare nuovi compagni di scuola, gli adolescenti vecchi compagni, sì, perché molti stringono amicizie fin dalla prima infanzia che dureranno tutta la vita. In ogni posto c’è un amico, un compagno di banco scolastico, un appassionato di circo.