«Il ritratto come genere è nato per lo più dal risentimento e dall’esasperazione dell’uomo di mondo che ha frequentato troppo i suoi simili per non aborrirli…». Così scrive Emil M. Cioran (1911-’95) introducendo questa sua Antologia del ritratto Da Saint-Simon a Tocqueville che Adelphi manda in libreria («Piccola Biblioteca», pp. 316, € 15,00) nella raffinata traduzione di Giovanni Mariotti: notiamo tuttavia con disappunto che l’editore milanese, un tempo così metodico e preciso, spesso licenzia lavori infarciti di refusi. Il libro, uscito postumo da Gallimard nel 1996, rappresenta un unicum nell’itinerario di Cioran, essendo una raccolta di cammei, da lui stesso curata, dedicati alla malignità e al rancore con cui venivano giudicati (e giudicavano) alcuni protagonisti della grandeur francese dall’epoca della Reggenza a quella del Secondo Impero.
Sviluppatosi tra Sei e fine Settecento, il «ritratto» si impone come genere schizzando, nell’arco di poche pagine, un profilo, un carattere, un’inclinazione, spesso conditi di ironia e risentimento. Cioran attinge al vasto giacimento dei Mémoirs e dei Souvenirs allestendo una galleria di personaggi la cui eleganza inclina al grottesco: tutti tesi a nascondere, attraverso maldicenza e pettegolezzo, l’horror vacui che contraddistingue la loro esistenza. Osserva lo stesso Cioran nella prefazione (presente, con qualche variante, anche in un capitolo di Squartamento): «La maledizione del moralista è quella di non riuscire a credere a nessun genere di “nobiltà d’animo”, perché credervi e ammetterla equivarrebbe per lui a un rinnegamento, a una deroga al suo sistema, alla sua amarezza, alla sua acredine».
Una fantastica carrellata
Si offre così al lettore una fantastica carrellata di personaggi storici e letterari la cui attendibilità in ambito documentario sembra cedere il posto al gusto per la boutade, per il divertissement fine a sé stesso (il portrait di Grimm su Fontenelle recita: «Insensibile a ogni altra beltà, tutto quello che non terminava con un motto di spirito era per lui senza valore»). È un’opera eccentrica che si configura come collezione di tavole teratologiche, realizzata con sarcasmo e raffinatezza da un manipolo di aristocratici che disquisiscono sopra la conformazione di un neo o di un’acconciatura mentre attendono la ghigliottina. «Fra i moralisti, solo Pascal si è concentrato sulla dimensione metafisica dell’esistenza umana (per questo, a quanto è dato constatare, nessun autore di ritratti ha subito la sua influenza). Accanto a lui tutti gli altri, senza eccezione, appaiono frivoli, perché non hanno colto la nostra miseria, ma le nostre miserie: quella somma di inadeguatezze, di fragilità inevitabili e banali in cui si esprime solo un aspetto della nostra natura» annota l’agnostico Cioran che, oltre a Pascal, apprezzava i mistici. «È curioso osservare come lo stesso paese abbia potuto produrre Pascal e Voltaire, come abbia sperperato il suo genio in maniera davvero sconcertante, su strade inconciliabili, senza la minima preoccupazione di convergenza e unità. A che pro’ i Pensieri se poi si approda al Dizionario filosofico?» si chiede l’autore rumeno.
Nell’Antologia del ritratto si passa da Saint-Simon (definito «un Rembrandt furioso») al cronista della Rivoluzione Rivarol, da Talleyrand a Madame de Staël, da Chateaubriand a Joubert, da Benjamin Constant a Sainte-Beuve, dal Marchese di Custine a Tocqueville, attorniati da figure più o meno celebri. Spesso il ritrattista è a sua volta ritratto da altri, come nel caso di Chateaubriand o dell’amato Talleyrand, a cui vengono riservati tre differenti profili. Rousseau è tratteggiato da Madame de Genlis alla stregua di un bugiardo. Marat viene raffigurato in questo modo da Brissot: «Ogni suo movimento era da saltimbanco. Testa e braccia sembravano tirati da un filo; dava l’impressione di una marionetta; discorsi e gesti erano scuciti, procedevano a scatti. Niente veniva dall’anima, tutto partiva dalla testa, tutto era fiuto». Madame du Deffand dipinge la Marchesa du Châtelet con aspetto da rapace, «una donna alta e secca, dal colorito acceso, dal viso aguzzo, dal naso a becco» che non rinuncia ad adornarsi di «riccioli, pompon, bigiotteria di pietre e di vetro, una profusione senza risparmio». La Contessa di Boigne ritrae Madame de Staël con un «faccione paonazzo, privo di freschezza, sovrastato da capelli che lei definiva arrangiati, cioè mal pettinati». Napoleone, secondo De Pradt, «si mostra come una specie di Giove-Scapino». Chateaubriand definisce Joubert «un egoista che si occupava solo degli altri» mentre Joubert, per contraccambio, rimprovera a Chateaubriand che, nonostante sia «nato prodigo», gli faccia «difetto proprio la generosità». In barba all’amicizia che li legava.
La cruauté con cui, in poche folgoranti battute, vengono messi a nudo questi personaggi non poteva non affascinare «il cattivo demiurgo» che nell’Inconveniente di essere nati aveva scritto: «Mi piace leggere come una portinaia identificandomi con l’autore e il libro. Ogni altro atteggiamento mi fa pensare al dissettore di cadaveri» (l’affondo è riservato agli accademici, rei di voler spiegare e dimostrare processi compositivi preclusi alla loro miopia).
Il Settecento e la società tarlata
In tal senso il «secolo dei lumi» rappresenta per Cioran la fucina alla quale attingere ogni sorta di malignità. Demonio incipriato, imbellettato, imparruccato, che non conserva alcunché di naturale, il Settecento è «incline a un’imponderabilità da acrobati» e rispecchia (…) par excellence il decadimento della società moderna, ripiegata sulle proprie convenzioni, sulla propria apparenza, sul proprio inappagabile filisteismo. Aggiunge Cioran: «Per tutto il Settecento si dispiega lo spettacolo di una società tarlata, che potrebbe servire da modello a chiunque volesse disegnare il ritratto di una umanità giunta al termine della sua evoluzione». E ancora: «La Rivoluzione ha trionfato perché il potere era una finzione e il tiranno un fantasma. Del resto una rivoluzione, quale che sia, la spunta solo quando si ritrova alle prese con un ordine irreale».
Lo scrittore costeggia l’abisso («L’abisso è in noi e fuori di noi» si legge in Squartamento) senza tentennamenti, con quel suo sguardo fisso e indagatore che si ripercuote nel nitore cartesiano di una prosa espressa attraverso il «fuoco di mistico ulceroso» ricordato da Ceronetti. Sia che disquisisca sulla storia – questo «paradiso dei sonnambuli» senza capo né coda –, sia che affronti, con folgoranti aforismi quella che Leopardi definiva «l’inevitabile infelicità della vita», Cioran «non potendo regredire al silenzio vegetale che sogna», per usare le parole di Mario Andrea Rigoni, «espone sé stesso e il lettore, chiamato alla complicità nel senza-nome, a una specie di temibile ascesi, a una sorta di incessante ordalia, dalla quale tutte le apparenze escono distrutte». Risulta bandita ogni forma di parusia, di consolazione escatologica.
L’Antologia, in questo senso, costituisce l’ideale appendice di un’opera che, con il passare del tempo, acquisisce un valore «profetico» sempre più vasto. La nostra epoca è diventata cioraniana proprio perché rappresenta ciò che Cioran aborriva. Lo scrittore stesso sembra essersi ispirato al genere del ritratto, soprattutto nella stesura degli Esercizi di ammirazione in cui, con la consueta sagacia e ironia, delinea una serie di profili di intellettuali (Beckett, Eliade, Caillois, Fondane, Borges, Michaux) che aveva frequentato o che sentiva particolarmente vicini al suo operato. D’altro canto non si può non rilevare come questo «eretico» del pensiero trovasse la forza, attraverso i suoi scritti, di affrontare un’esistenza da «scorticato»: «Ciò che rende la vita tollerabile è l’idea che si possa uscirne».