Ad oramai quasi vent’anni dalla sua istituzione il Giorno della Memoria registra le sue anchilosità, manifestando limiti e difficoltà in parte prevedibili ed in parte inediti. Non c’è solo la stanchezza da ripetizione ma anche il rischio di una cristallizzazione di modalità e contenuti, destinati quindi a distanziare piuttosto che ad avvicinare. Ma i veri temi di una riflessione collettiva di merito debbono confrontarsi con l’intera partita delle prassi della memoria che i paesi occidentali, ed in particolare quelli europei, in questi ultimi tre decenni hanno fatto propria. Non meno che con le trasformazioni politiche che stanno caratterizzando l’intero Continente, trattandosi queste ultime di una partita completamente aperta.

SE L’ISTITUZIONE di una serie di pratiche commemorative, nonché di pedagogia pubblica, è parte integrante del dispositivo culturale che è alla base dell’Unione europea, diventa difficile negare il fatto che nel momento in cui il processo di integrazione continentale sia in oggettiva difficoltà, possano invece preservarsi, e produrre effetti immediatamente positivi, quelle procedure del ricordo che sono diventate parte integrante del modo in cui l’Unione stessa si pensa, e quindi si presenta, ai suoi interlocutori.

In altre parole, se è il soggetto politico ed istituzionale a scontare un grave affaticamento, i suoi medesimi contenuti – a partire dal rifiuto dei «totalitarismi» nella forma di una sensibilizzazione ai diritti umani e alla consapevolezza delle tragedie storiche – rischiano di essere sottoposti, a loro volta, ad una forte tensione. Il limite delle istituzionalizzazioni di una memoria che si vorrebbe non solo civile ma anche in qualche modo «politica», è esattamente quello di seguire la parabola, in questo caso declinante, di ciò di cui diventa espressione: un’Europa senza corpo né sostanza.

Non di meno è da tempo che si va denunciando l’eccesso di sovraccarico di aspettative che intorno al calendario civile si è andato determinandosi. Al Giorno della Memoria, infatti, sono attribuite funzioni che non dovrebbe avere, in una sorta – invece – di ruolo di surrogazione e di supplenza rispetto ad altre realtà, narrazioni, agenzie e funzioni, del tutto assenti o comunque carenti. Soprattutto, ha riempito uno spazio che andava svuotandosi, quello dell’identificazione delle radici dei legami di cittadinanza. Tuttavia, non può in alcun modo sostituirsi efficacemente a ciò che non c’è, oppure che non riesce più a darsi una ragione sua propria. La questione di una giusta proporzione deve quindi confrontarsi sia con il mutamento socioculturale che attraversa le nostre società, dove al pluralismo si accompagnano anche quelle sempre più difficili coesistenze tra origini distinte (a partire dagli esiti dei processi immigratori), sia con la crisi delle forme di socialità così come di partecipazione collettiva.

A TALE RIGUARDO, il fatto stesso che l’oggetto del discorso memorialistico sia eurocentrico (il genocidio degli ebrei, i fascismi continentali, la crisi dell’Europa prebellica e la Seconda guerra mondiale), inevitabilmente circoscrive le possibilità di comunicazione con quella parte di popolazione le cui radici riposano nell’immigrazione e con una irrisolta storia postcoloniale. Con cui deve comunque confrontarsi, poiché la cittadinanza europea sarà sempre più spesso ibrida. Si tratta infatti di un meticciato che non si proietta sul piano della condivisione culturale, semmai rafforzando i processi identitari basati sulla razzizzazione delle relazioni sociali e sulla etnicizzazione dello spazio pubblico.

Contrapporre ad una dinamica che sta ridisegnando non solo i confini politici ma anche e soprattutto la composizione dei mercati del lavoro e, con essi, i patti sociali di cittadinanza, discorsi esclusivamente basati sulla solerzia della buona volontà, ispirati ad una pedagogia dell’esempio e della rettitudine, rischia di rivelarsi un’arma spuntata.

Va da sé che le numerose iniziative realizzate in questo anni, soprattutto in campo didattico, non siano conducibili e riducibili a questo quadro in termini esclusivi. Da un tale punto di vista, il Giorno della Memoria ha invece dischiuso possibilità e incentivato opportunità, altrimenti destinate a rimanere ai margini. Ma il problema, al netto delle potenzialità che pure permangono, è legato essenzialmente al campo della formazione del giudizio di senso comune, alla rappresentazione mediatica, alla costruzione di un assenso passivo che rischia, invece, di produrre anche eterogenesi dei risultati.

L’occupazione del campo del discorso sull’antisemitismo da parte di alcuni esponenti della destra illiberale europea, che lo stanno piegando, in un gioco di paradossi, a proprio beneficio, è indice di questa deriva. Va in questo senso, purtroppo, la questione ombra della risoluzione del Parlamento europeo approvata nel settembre dell’anno scorso, che annulla qualsiasi distinzione di ordine storico, riconfigurando sotto la categoria dei «totalitarismi» le complesse e molteplici vicende che portarono alla guerra mondiale, come anche allo sterminio degli ebrei. Si tratta di una deliberata deformazione non tanto della storia in sé ma della sua percezione e rielaborazione nel presente. In omaggio ad un duplice meccanismo basato sulla parificazione e sull’intercambiabilità di ruoli, di responsabilità, di disegni politici e di azioni.

IL DISPOSITIVO, in una sorta di par condicio, opera quindi verso l’annullamento dei profili di colpa, facendovi subentrare un’implicita corresponsabilità, dove nella notte, poiché tutte le vacche sono scure, nessuna è veramente distinguibile dalle altre. L’omaggio obbligato ai nazionalismi dell’Est che è sottointeso ad una tale operazione politica, è esattamente antitetico, ovvero specularmente capovolto, al lavoro svolto per identificare la natura del processo genocidario nel Novecento. Il filtro, in questo caso, opera non nel senso di identificare e condannare la radicalità del politico quand’esso si pensa come totalità, ma di legittimare l’autoritarismo, ovvero il concreto obiettivo delle democrature dell’Europa orientale, come fattore di stabilizzazione.

Il postliberalismo, infatti, viene inteso come accettazione delle democrazie plebiscitarie. Nell’Est continentale, l’elaborazione del lutto e la riappropriazione di un passato nazionale rimosso, tra chiari e scuri (più i secondi che non i primi), hanno lasciato il posto alla riabilitazione del nazionalismo, inteso come chiave esclusiva per ricostruire la propria identità dopo le mortificanti esperienze del socialismo reale. Così come la rilettura del secolo trascorso, consegnato esclusivamente alla luce delle tragedie che vi si consumarono, piuttosto che restituirci la loro dimensione di scala e la loro effettiva rilevanza per la nostra coscienza civile, rischia di trasformare il discorso pubblico sulla Storia in una sorta di marmellata sospesa tra l’orrido (le vittime) e il caramelloso (i buoni, come anche i «giusti», che dovrebbero liberare dalle corresponsabilità e dalle innumerevoli compromissioni di cui un diffuso sistema omicida di dominio si basa a prescindere), due estremità di un approccio dove l’indistinzione ingenera una reazione qualunquista. Il problema dell’indistinzione – che è cosa ben diversa dalla costruzione di una scala morale del giudizio, semmai segnandone l’impossibilità – è oramai la prospettiva verso la quale si sta navigando, almeno dal momento in cui la storia si trasforma in un collage di massacri e null’altro.

INDISTINZIONE indica intercambiabilità, come in una raccolta di figurine che possono essere sostituite. Più in generale, è indice di memorie simmetriche e compatibili, già sostenute a loro tempo da Luciano Violante e Carlo Azeglio Ciampi, come se non dovesse più porsi un problema di «gerarchie retrospettive della memoria» (Sergio Luzzatto) che sono, invece, alla radice del patto repubblicano e costituzionale. Da questo punto di vista, l’ipertrofia della memoria «condivisa», a scapito di un lavoro storico, segnala semmai il declino della politica nella sua dimensione partecipativa. Sposta infatti il campo della riflessione dal conflitto di poteri, e dai processi redistributivi legati ad esso, ad una sorta di fittizio accordo su un umanitarismo di circostanza, nel quale qualsiasi confronto è aborrito rispetto a società che stanno vivendo al presente, così come era già avvenuto nel passato, una secca crisi di rappresentanza.

Il Giorno della Memoria non ha alcuna responsabilità in queste dinamiche, poiché di esse non ne è causa bensì effetto. Ma sarebbe buona cosa, esaurite le legittime e necessarie ricorrenze, ragionare sul deficit di cultura politica che esso stesso ci segnala.