Se stiamo guardando un gatto e qualcuno ci domanda «Cosa stai guardando?», normalmente rispondiamo «un gatto». Sembra cioè che pensiamo che ci sia lì un gatto, e che noi lo vediamo. Nella terminologia dei filosofi della percezione, siamo dei realisti diretti: pensiamo che l’oggetto della nostra percezione visiva sia un oggetto reale che sta nel mondo là fuori – non nella nostra mente o nel nostro cervello – e che lo vediamo direttamente, non vedendo qualche altra cosa che a sua volta rinvia al gatto, o assomiglia al gatto, o rappresenta il gatto, ma non è proprio il gatto. Certo, a volte ci sbagliamo: crediamo di vedere un gatto mentre stiamo vedendo il suo riflesso in uno specchio, o un gatto di plastica, o un ologramma di gatto; o addirittura non stiamo vedendo niente ma stiamo allucinando un gatto, sotto l’effetto dell’Lsd. Questi però sono casi eccezionali, e non è difficile spiegare perché, in ciascuno di essi, ci sembra di vedere un gatto mentre non è così.

Normalmente, quando diciamo di vedere un gatto il gatto c’è, ed è proprio lui che vediamo. Discorsi analoghi si potrebbero fare per le altre modalità percettive: quando tocchiamo il bottone del campanello il bottone c’è ed è ciò che tocchiamo, quando annusiamo il pesce per capire se è andato a male il pesce c’è ed è lui che annusiamo, e così via. Eppure, nota John Searle nel suo ultimo libro Vedere le cose come sono (Cortina, ben tradotto da Davide Bordini, introduzione di Paolo Spinicci, pp. 250, euro 25,00) questa descrizione della percezione, che è così naturale, ha goduto di scarsissima popolarità tra i filosofi, almeno a partire da Cartesio. Infatti, molti hanno sostenuto che, in realtà, ciò che vediamo non sono le cose là fuori ma certi enti interni alla nostra mente, spesso chiamati «dati di senso».

Il loro ragionamento era più o meno il seguente. Supponiamo che ci siano allucinazioni perfette, come nel film Matrix: cioè casi in cui la nostra esperienza (allucinatoria) di un gatto è assolutamente indistinguibile dall’effettiva visione di quel particolare gatto. È chiaro che le due esperienze, visione e allucinazione, hanno qualcosa in comune. Ma quel qualcosa non può essere il gatto reale, che nel caso dell’allucinazione non c’è; dunque dev’essere qualcosa di mentale. Diciamo un «dato di senso». Ma se nel caso allucinatorio la nostra esperienza è esperienza di un dato di senso, dev’essere così anche nell’altro caso (quello «normale»), dato che le due esperienze sono indistinguibili. Dunque, noi facciamo esperienza – in particolare, visiva – sempre soltanto di dati di senso e non degli oggetti del mondo esterno, con i quali abbiamo un rapporto, ben che vada, soltanto indiretto; ben che vada, perché, per quel che ne sa la visione, quegli oggetti potrebbero non esistere.

Di qui, generalizzando il ragionamento alle diverse modalità percettive, è facile dare origine a varie forme di scetticismo, come fece in particolare David Hume. Questa argomentazione è chiamata da Searle il Cattivo Argomento, per i molti guai – scettici, solipsistici, e altri ancora – di cui la ritiene responsabile nella filosofia moderna e contemporanea.

Tradizionalmente viene detta «argomento dell’illusione»; era già stata analizzata e respinta nel secolo scorso da John Austin, in una serie di lezioni poi pubblicate con il titolo di Sense and Sensibilia (echeggiando la quasi omonima Jane Austen). Curiosamente Searle, che pure è stato allievo di Austin, cita questo libro, a suo tempo famoso, una sola volta. La sua confutazione è indipendente.

Secondo lui, l’argomento è basato su un semplice equivoco. Si ipotizza infatti che nei due casi, allucinazione e «vera» visione, noi abbiamo «consapevolezza di» qualcosa – la stessa in entrambi i casi. Ma nel caso della visione per «consapevolezza» si intende una relazione con un oggetto («oggetto intenzionale»), mentre nel caso dell’allucinazione si intende una relazione con l’esperienza stessa (con il «contenuto intenzionale»).
Un conto è essere consapevole di un tavolo, dice Searle, e un altro è essere consapevole di un’esperienza di dolore. Quindi l’argomento è fallace: non c’è niente di cui siamo «consapevoli di» nello stesso senso dell’espressione.

Pur simpatizzando con la posizione di Searle, trovo la sua formulazione un po’ fuorviante. Per esempio, la nozione di contenuto intenzionale rimanda a un qualche contenitore: non c’è contenuto senza contenitore. C’è la borsa della spesa, il contenitore, e ci sono le patate e le carote, il contenuto della borsa della spesa. Le patate e le carote possono essere dette il contenuto perché qualcosa – la borsa della spesa – le contiene. Qualche volta contenimento e contenitore sono metaforici: parliamo metaforicamente ma legittimamente del contenuto di un testo perché distinguiamo tra il testo – una sequenza di suoni o di segni – e i pensieri che il testo esprime. Quei pensieri sono «contenuti» metaforicamente nella sequenza di segni. Non il massimo della chiarezza (anzi!), ma ancora ci sta. Invece nel caso nel caso di un’esperienza come l’allucinazione di un colore non è possibile nessuna distinzione tra contenitore e contenuto: che del resto è, in fondo, proprio ciò che Searle vuol dire. Quale potrebbe essere il contenitore, fisico o metaforico? Un’area cerebrale attiva? Il cervello? La persona che ha l’esperienza? Nessuna di queste cose sembra un candidato promettente. Dire che un’allucinazione del rosso ha come contenuto il rosso è soltanto dire che è quella determinata esperienza; la nozione di contenuto intenzionale è una metafora impazzita.

Comunque, nel libro di Searle c’è molto altro. Per esempio, una presentazione efficace della percezione visiva come processo fisico-biologico. La scienza della percezione viene tra l’altro utilizzata per criticare la teoria filosofica della percezione oggi forse più popolare, il cosiddetto «disgiuntivismo». Secondo i disgiuntivisti, è impossibile in linea di principio che un’esperienza allucinatoria e un’esperienza di «vera» visione siano identiche, per la buona ragione che l’oggetto visto è un ingrediente essenziale di un’esperienza di visione, ma non di un’esperienza allucinatoria – dato che in quel caso non c’è nessun oggetto. I disgiuntivisti sono, come si usa dire, degli esternisti: pensano che atti e contenuti mentali siano non solo causati ma costituiti e individuati dalle loro relazioni col mondo esterno. Searle, con un minimo di finta ingenuità, dice che proprio gli sfugge come un oggetto del mondo esterno possa essere un ingrediente di qualcosa che sta nella nostra testa; e sfida i disgiuntivisti a indicare una differenza fisica o biologica tra caso normale e caso allucinatorio.

Qui è un po’ veloce, perché per quanto riguarda i processi di visione/allucinazione le differenze, fisiche e biologiche, ci sono eccome: un conto è la stimolazione transcranica di un’area cerebrale e un conto è l’elaborazione delle codifiche retiniche da parte delle aree deputate alla visione. Quel che Searle vuol dire è che il risultato del processo è indistinguibile nei due casi, ma questo è più difficile da dimostrare in termini scientifici e senza chiamare in causa l’esperienza soggettiva.
Searle, come quasi sempre, scrive in uno stile colloquiale che rende gradevole la lettura ma qualche volta dà l’impressione – fallace – che i problemi siano più facili di quello che sono, e le sue soluzioni più ovvie di quello che sono. Per chi cercasse un rimedio a questo inconveniente, l’introduzione di Paolo Spinicci mette molte cose al loro posto.