Il più giovane ha vent’anni, il più grande trentadue: Wilson Kofi viene dal Ghana, Omar Fadera dal Gambia, Jennifer Otiotio è nigeriana, così come Gideon Azeke e Festus Omagbon, Mahamadou Touré è del Mali.
Touré è il ferito più grave, un proiettile gli è entrato nel torace. Lui è sempre rimasto cosciente ma, almeno fino a oggi pomeriggio, continuerà a essere ricoverato nel reparto di rianimazione dell’ospedale di Macerata. È andata poco meglio a Kofi, ferito anche lui al torace, ma subito stabilizzato e già in ripresa: la sua prognosi è stata sciolta già nella giornata di domenica. L’unica donna coinvolta, Jennifer, si trovava alla fermata del pullman con il suo fidanzato, davanti alla stazione, quando Traini ha accostato con la macchina e le ha sparato. Un proiettile l’ha colpita sotto alla spalla sinistra, è entrato e uscito, ma le ha spaccato le articolazioni. Sarà operata domani mattina.

Questi sei ragazzi sono le vittime, anche se a leggere in giro le loro sembrano essere soltanto figure sullo sfondo di tutta questa vicenda: nessuno è ancora andato a trovarli, mentre si moltiplicano le apparizioni di «quelli che contano» nei luoghi in cui ancora si vedono i fori dei proiettili di Traini. Se ci si limitasse a leggere distrattamente i titoli delle gazzette locali si potrebbe pensare che a Macerata siano stati sei africani a sparare a un italiano.

Un manifesto ambientale: «Ma che si spara così? Poteva colpire qualcuno…», ha dichiarato in maniera incredibile Stefano Porfiri, proprietario di una bottega nel centralissimo corso Cairoli. I sei feriti sono già un fatto rimosso, non ci sono mai stati. «I ragazzi hanno paura – confida Paolo Bernabucci, presidente del Gruppo di Umana Solidarietà, associazione che in città ospita 150 tra richiedenti asilo e rifugiati politici -, parliamo di persone che scappano da paesi dove c’è la guerra. Non è giusto che la ritrovino a Macerata».

La realtà rovesciata di una provincia che si scopre molto diversa da come pensava di essere: in quattro giorni prima c’è stato il brutale omicidio di Pamela Mastropietro, e poi lo shooting selvaggio di Luca Traini. Il sindaco Romano Carancini (Pd) prova a tenere i piedi in due staffe, perché fondamentalmente ancora non sa dove andare a sbattere la testa. E così, se da una parte la sua condanna per i fatti di sabato è netta, con tanto di invito a stare attenti ai «messaggi d’odio», dall’altra anche lui si dichiara «infastidito da questi giovanotti che bighellonano tutto il giorno, sempre lì a chiedere la carità, o peggio, a spacciare».

L’Istat, ad ogni buon conto, restituisce uno scenario molto diverso da quello percepito e alimentato da un allarmismo generalizzato e colpevole, da parte di politici, giornalisti e mattatori televisivi d’ogni sorta. Nel 2012 in provincia di Macerata vivevano 32.267 cittadini stranieri, nel 2017 il numero si abbassato a 31.020. Nel capoluogo si è passati dai 3.874 immigrati del 2011 ai 3.879 del 2016: cinque in più, altro che invasione.

La sicurezza di vivere in un’oasi di tranquillità fatta di poca disoccupazione, studenti universitari, opera lirica (il teatro Sferisterio ospita tra le rassegne più importanti dell’Italia centrale), afflati leopardiani e celebrazioni del gesuita Matteo Ricci («L’uomo che evangelizzò la Cina»), sembra svanita nel nulla. La paura di non saper leggere il futuro traspare anche dalle dichiarazioni del segretario locale del Pd, Francesco Vitali: «È vero che molti maceratesi non se la sentono di condannare Traini. È un malessere che monta da tempo». Il problema è che nessuno sembra intenzionato a smontarlo, questo malessere. È come se la realtà non contasse nulla. Meno che mai in campagna elettorale.