C’è una formula che circola in queste ore di travaglio e confusione dentro al Movimento 5 Stelle: «Ripartire dai territori». La evocano deputati e senatori quando si chiede loro l’analisi della sconfitta alle europee. Lo dice Luigi Di Maio assieme al suo braccio destro Riccardo Fraccaro. Ne ha parlato anche Roberto Fico, che spiegando la sua non partecipazione alla consultazione online convocata per restituire pieni poteri al «capo politico» Di Maio, ha fatto riferimento alla necessità di ascoltare le «assemblee territoriali». Il «ritorno ai territori» è insomma un piccolo classico di questa fase, sa di ritorno alle origini, di rinnovato coinvolgimento, allude ad un bagno di umiltà insieme agli attivisti. Le cose però sono un po’ più complicate.

CHI SI TROVA AI VERTICI del M5S, della sua piattaforma telematica o della sua organizzazione leggerissima, sa bene che una delle poche costanti che accomunano i fantomatici «territori» è l’elevatissimo tasso di litigiosità interna. Su scala locale, visti ad altezza di comuni e circoscrizioni elettorali, i grillini litigano moltissimo tra di loro. Si contendono il prezioso brand elettorale e mandano dossier velenosi a Roma e a Milano nella speranza di vedersi riconosciuti come interlocutori unici. Questo è uno dei motivi per cui spesso il M5S non si presenta al voto amministrativo: dai vertici ci si trova di fronte a scontri insanabili e si preferisce lasciar perdere. È successo alle scorse amministrative in città importanti come Vicenza, Siena, Spoleto. L’alternativa è scegliere uno dei due contendenti, appoggiando una lista indebolita da lacerazioni. È il caso recente, ad esempio, di Ferrara anche se quasi tutti i comuni conoscono scissioni grandi e piccole all’approssimarsi del voto.

IL FATTO È CHE IL M5S NASCE proprio dai «territori». Ai tempi, ormai dieci anni fa, l’idea di presentarsi solo alle elezioni amministrative era tutt’altro che peregrina, visto che la sfera locale doveva essere quella in cui sperimentare nuove forme di democrazia e partecipazione. Poi arrivò l’accelerata delle elezioni regionali in Emilia Romagna e Sicilia del 2010, la voragine aperta nel sistema dei partiti tradizionali, e in molti si dimenticarono di quel proposito. Che pian piano si è ribaltato: nel giro di pochi anni il M5S è diventato una macchina da guerra al voto nazionale ed europeo, ma è notoriamente molto meno competitivo alle elezioni regionali e comunali. La tendenza rispecchia le caratteristiche dell’elettorato grillino: alle amministrative voti chi conosci e alle politiche voti per un simbolo.

EPPURE, DICONO GLI ESPERTI, fa anche i conti col fatto che ormai il voto amministrativo è più facilmente controllabile. In più, in tempi di crisi della politica e carenza di risorse, le poche clientele che la vecchia politica può spendersi si giocano più sul piccolo favore della scena amministrativa che nella grande arena politica nazionale. Ecco perché, solo per fare un esempio, alle ultime elezioni nella vivace cittadina di Rende (in provincia di Cosenza) che ospita un grande ateneo e che un tempo fu laboratorio di amministrazioni socialiste prima molto sperimentali poi fortemente clientelari, la lista del M5S ha raccolto nello stesso giorno il 3,9% alle elezioni comunali e il 30,8% alle europee.

Questo fenomeno crea un paradosso nel rapporto tra il M5S e i «territori»: siccome è più difficile farsi eleggere consigliere comunale che deputato o senatore, ogni percorso di formazione politica si rovescia e complica di parecchio la creazione di quadri locali. Tanto più che il vincolo dei due mandati elettivi, attualmente in vigore anche per i consigli di quartiere, rischia di rendere indigesto anche all’attivista più volenteroso un posto al consiglio comunale di Sgurgola Marsicana (L’Aquila). Un report interno circolato nei mesi scorsi sulle scrivanie degli eletti grillini in Veneto fotografava questa tendenza: nel giugno scorso, afferma il documento, «ci siamo presentati in appena 10 comuni su 46. Nel complesso su diciannove portavoce in scadenza nel 2018 ne abbiamo rieletti dieci. Per il secondo anno consecutivo abbiamo dimezzato i consiglieri uscenti».

NEL 2012, QUANDO AVEVA soli 26 anni, Alvise Maniero venne eletto sindaco di Mira, comune di 40 mila abitanti a pochi chilometri da Venezia. A detta di molti aveva amministrato bene e poteva essere il simbolo della giovane leva di amministratori a 5 Stelle. Ma se si fosse ricandidato, stanti queste regole, avrebbe sparato la sua ultima cartuccia e perso per sempre, appena trentaduenne, la possibilità di arrivare in parlamento. Così Maniero se n’è andato a Roma, alla camera e il M5S a Mira ha sbaraccato. Al netto delle differenze di contesto territoriale è andata così anche a Livorno: Filippo Nogarin ha preferito candidarsi alle europee invece che battersi per il secondo mandato da sindaco, il M5S non è arrivato neanche al ballottagio e Nogarin non è riuscito a sbarcare a Bruxelles (per inciso, circola il suo nome per la casella vacante di assessore ai rifiuti della giunta romana di Virginia Raggi, alla quale Livorno ha già ceduto l’assessore al bilancio Gianni Lemmetti). In questo modo, è difficile che dai territori si inneschi una lunga marcia dentro le istituzioni.

IL PRIMO SEGNALE CHE i MeetUp, i forum telematici territoriali dai quali il M5S si originò, sarebbero stati abbandonati a sé stessi è arrivato nel pieno della scorsa legislatura. Era il gennaio del 2015 e Roberto Fico e Alessandro Di Battista scrissero una «Lettera ai MeetUp». Tra toni autocelebrativi e captatio benevolentiae veniva sancita la centralizzazione assoluta della macchina elettorale: «La partecipazione al MeetUp non dà diritto all’uso del simbolo M5S, che può essere usato solo dai portavoce e dalle liste certificate limitatamente alla durata della campagna elettorale».

FU L’INIZIO DELLA FINE: dal 2017 Davide Casaleggio ha concentrato tutto nella Piattaforma Rousseau, la cui filosofia profonda esclude l’organizzazione reticolare e il confronto da pari a pari. Il cosiddetto «sistema operativo» del M5S è pensato per fare in modo che gli eletti si rapportino agli elettori iscritti (dunque, una relazione verticale) o per consentire di votare ma solon su quesiti specifici decisi dai vertici. Le «assemblee territoriali» di cui parla Fico dovrebbero essere gli incontri regionali sulla riorganizzazione del M5S che si sono tenuti all’inizio del mese scorso. Ogni consesso ha prodotto un documento finale.

I VERTICI, PERÒ, NON SONO obbligati a tenerne conto: ancora una volta basterà un plebiscito su Rousseau per cancellare ore di discussione collettiva. Eppure queste riunioni sono preziose perché costituiscono una delle pochissime occasioni in cui osservare come si evolve il dibattito interno della base grillina. Vi hanno partecipato in gran parte consiglieri comunali e di quartiere, i quali a grande maggioranza hanno rigettato l’ipotesi che si abbandoni il limite delle due elezioni. Qualche apertura, guarda un po’, c’è stata per la proposta di non conteggiare i mandati nelle amministrazioni locali. Un bel problema per Di Maio e per gli altri 68 deputati e 39 senatori grillini per i quali la clessidra della seconda legislatura in parlamento scorre giorno dopo giorno.