No dei Cinque Stelle alla proposta del ministro dell’Economia Roberto Gualtieri sulla proroga della sospensione delle norme del «Decreto dignità» sui contratti a termine fino a dicembre. Secondo la ministra del lavoro Nunzia Catalfo resta la deroga inserita nel «Decreto rilancio» che sospende le causali per il rinnovo di questi contratti fino al 30 agosto. «Non si va oltre – ha detto ieri- Dobbiamo lavorare al rifinanziamento di altre misure». L’offensiva del Pd e dei renziani di Italia Viva su un tema ritenuto dai Cinque Stelle fondante della loro lotta contro la precarietà – avrebbero voluto smantellare il Jobs Act, cosa mai avvenuta – può avere messo sulla difensiva il partner di maggioranza. Per stemperare le tensioni è giunta in serata una nota congiunta di Catalfo e Gualtieri. Sono al lavoro sulle misure a «sostegno delle imprese, dell’occupazione dei lavoratori».

Resta sul tavolo la richiesta di prolungare il blocco dei licenziamenti fino alla fine del 2020. Per Gualtieri non lo si può «prolungare per sempre», insieme all’estensione della cassa integrazione. Ieri circolava l’ipotesi di prolungare il blocco di altri due mesi fino alla metà di ottobre e eliminare la clausola per il rinnovo dei contratti a tempo determinato dopo 12 mesi fino a novembre. Un dilemma della recessione assilla inoltre il governo da marzo: rinviare il giorno in cui le imprese inizieranno a licenziare (e, in parte, anche a fallire) a fine anno, oppure cercare di spalmare su una manciata di mesi.

Sui contratti a termine Gualtieri ha proposto di «estendere ulteriormente» il regime temporaneo che ha tolto l’obbligo di causale per il rinnovo inserito nel «Decreto rilancio» erogando alle imprese incentivi sul piano contributivo vincolati a non licenziare il lavoratore. A questo proposito il Pd ha presentato un emendamento che permette di rinnovare questi contratti anche senza causale, in una forma simile al «decreto Poletti» poi confluito nel Jobs Act. L’idea di una deroga temporanea all’obbligo della causale dopo 12 mesi, accompagnata da una decontribuzione per incentivare la conversione dei contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato potrebbe incontrare un ostacolo: la recessione e, dunque, la mancanza di lavoro «fisso».

Questo schema non ha funzionato quando il governo del Pd regalò 18 miliardi di euro in tre anni alle imprese dopo l’approvazione del Jobs Act, ci si chiede in che modo potrebbe funzionare oggi. Da questo punto di vista i Cinque Stelle avrebbero qualche ragione in più nel pensare che è stato il «decreto dignità» ad aumentare perlomeno le conversioni del lavoro a tempo determinato in indeterminato. Un fenomeno che ha riguardato solo un segmento del precariato. Il «Decreto dignità» non ha prodotto nuova occupazione, ha ricontrattualizzato quella esistente, provocando un travaso verso contratti come quelli in somministrazione. Il precariato censito è rimasto lo stesso.

Alla base di queste misure c’è un equivoco ricorrente in tutte le politiche neoliberali del lavoro: l’aumento dell’occupazione è misurato nel numero dei contratti di lavoro. Tanto più numerosi sono questi contratti, tanto più ampia sarà l’occupazione esistente. E’ una finzione per il semplice fatto che un contratto a termine che, in media, può durare anche meno di 28 giorni e può essere rinnovato più volte coincida con un numero di lavoratori corrispondente. E’ una finzione: un lavoratore può stipulare più contratti, e dunque non può essere conteggiato più volte. Indifferenti a questa elementare legge della precarietà, tutti i governi – compreso quello in carica – finge di credere che un aumento dei contratti a termine corrisponda a uno dell’occupazione complessiva. Su questo equivoco sono state basata intere riforme del mercato del lavoro, come il Jobs Act, basate su una legge completamente diversa: aumentare i contratti, abbassare i compensi, ridurre al minimo le tutele nell’illusione che il precariato favorisca la domanda e l’offerta del lavoro. In una recessione come quella attuale queste leggende trasformeranno in un inferno la vita di milioni di persone.

La dinamica auspicata anche oggi si era inceppata prima dell’inizio della pandemia, già alla fine del 2019 a riprova di un’economia stagnante con alto precariato, bassi salari e Pil in fase agonica. Ieri i dati dell’Osservatorio sul precariato dell’Inps hanno confermato che la gran parte dei posti di lavoro persi nel primo trimestre, e in particolare a marzo sono stati quelli a termine, stagionali, intermittenti, somministrati. Si parla del 37,8% per un totale di 254 mila posizioni. Le «trasformazioni» in tempi indeterminati (con il Jobs Act, dunque non il tempo indeterminato di prima del 2015) sono crollate del 26% (166 mila) sono stati un effetto ottico statistico che ha spinto i Cinque Stelle a credere di avere lottato contro la «precarietà».

Con un Pil che viaggia verso meno 9%, e oltre, una disoccupazione stimata di almeno 500 mila unità in più nel solo 2020, tanto il «decreto dignità» quanto gli incentivi al lavoro a termine, possono essere tutt’al più un tampone. Il giorno dopo la fine del blocco dei licenziamenti e delle proroghe delle Cig inizieranno i licenziamenti. L’alternativa sarà il precariato di massa con gli ammortizzatori sociali riformati dal Jobs Act inadeguati per la nuova crisi e senza un reddito di base per chi non ha tutele.