Personalità complessa ed eclettica del teatro del secondo Novecento Annibale Ruccello (Castellammare di Stabia 7 febbraio 1956/12 settembre 1986), morto trent’anni fa prematuramente e tragicamente in un incidente d’auto. Il giovane drammaturgo stabiese recide indiscutibilmente le convenzioni piccolo-borghesi del teatro eduardiano, tant’è che la sua figura artistica e la sua lingua teatrale riportano a Raffaele Viviani (1888/1950), un altro grande del teatro nonché concittadino. La sua lingua, come appunto quella vivianea, è autentica, potente, originale, perché non connotativa ma costantemente e strenuamente costitutiva. Annibale pone al centro del proprio teatro figure da lui stesso definite deportate: deportate dalla propria cultura originaria e vera; è la stessa scelta di Viviani che individua i personaggi tra coloro che oggi sarebbero additati come diversi o esclusi. Il pregio del drammaturgo sta nel preservare ostinatamente la memoria delle proprie radici, ovvero del passato, senza rinunciare al tempo stesso allo studio addolorato e lucidissimo del presente.

Il suo patrimonio prezioso per il teatro a venire verrà ricordato dal Comune di Castellammare di Stabia (Na) con iniziative dedicate alla sua opera e alla sua figura e con un convegno organizzato dal Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Napoli Federico II.

Un ‘ricordo’, spero, che non sia né celebrativo né commemorativo, bensì propositivo, passionale e senza mediazioni. Concordo col M° Roberto De Simone quando afferma: «Diffido delle celebrazioni, sono sempre eventi mortuari. Perché il traguardo del teatro sta nella contemporaneità, mai nel passato».

UN DECENNIO DIFFICILE

Intellettuale di frontiere difficili. Ecco come definirei Ruccello. Un antropologo – drammaturgo, regista, attore – che indaga oculatamente, con rigore e senza convenzioni, come emerge nelle opere teatrali, la società napoletana e l’hinterland in uno dei decenni più difficili: 1976/86. L’universo drammaturgico di Ruccello affonda le radici in un universo simbolico dove confluiscono: follia, morte, solitudine, attesa, ovvero l’attente beckettiana. Elemento comune a tutte le pièce sono le figure femminili o figure che tendono al femmineo, in senso archetipico e che si ricollegano, a mio avviso, in senso antropologico-psicologico, alla Grande Madre e quindi alla Madonna o, meglio, alle sette Madonne/sorelle della tradizione cultuale in Campania. Tutto ha inizio nel 1977, quando si laurea in Antropologia culturale su La Cantata dei Pastori con Luigi M. Lombardi Satriani all’Università di Napoli Federico II. Da subito inizia a collaborare con De Simone che lo coinvolge nell’indagine antropologica finalizzata al recupero culturale delle feste popolari campane. Riguardo al rapporto con De Simone e ai punti di contatto e contrasto con la sua drammaturgia, Ruccello dichiara: «C’è una scelta di De Simone che mi trova d’accordo: lui ha individuato consapevolmente una comunicazione che è più fonica che contenutistica. E i miei personaggi non comunicano mai per contenuti, comunicano per forme, per linguaggi. Anche se i miei linguaggi sono diversi da quelli di De Simone: lui tende ad un «musicale tornito», io preferisco un «musicale scassato», un musicale, diciamo, minimale, se vogliamo dargli una definizione più o meno corretta musicalmente. Tutto quello che avviene ai personaggi, avviene quasi esclusivamente con corpi e suoni, anche se poi c’è una trama».

GLI ESORDI

Sin dagli esordi Ruccello mette a frutto uno stile drammaturgico personalissimo ed estremamente notevole perché coniuga folklore e immaginario antropologico, ricchezza della parola, dignità linguistica del dialetto, percezione del corpo attoriale e senso dello spazio scenico. L’interesse per il recupero della tradizione popolare si palesa subito, prima con la rielaborazione e la messa in scena de La Cantata dei Pastori (1976), dramma sacro scritto nel 1698 dal gesuita Andrea Perrucci, poi con L’osteria del Melograno (1977). Ne risulta una lingua teatrale in cui la parola/verbo ritrova tutto il valore semantico e si fa carico di storie i cui meccanismi narrativi estremamente articolati e complessi focalizzano e mettono a nudo le immagini più torbide e oscure di una Napoli dominata dall’irrazionale, dalla follia e dalla morte. Siamo lontani, quindi, dalla logorata e abusata riproposizione oleografica classica e solare della città di chiara derivazione laurina. Un’immagine che lo accomuna al sodale Franco Autiero (1945/2008), scenografo di tutte le sue opere oltre che drammaturgo con cui fonda nella metà degli anni Settanta la Compagnia teatrale de «I dodici pozzi», divenuta poi «Il Carro». I due drammaturghi, pur avendo sviluppato una propria autonomia stilistica che li diversifica sul piano della rappresentazione, sono accomunati da un’affinità elettiva estrinseca che li lega attraverso il percorso drammaturgico del delirio linguistico, della babele, nel senso tragico e nietzscheano del termine. (…) L’aspirazione è avere un teatro completamente vuoto, con solo il corpo e la voce; quindi c’è il desiderio, il bisogno di una decostruzione, Destruktion – nell’accezione heideggeriana – dello spazio scenico, che dà spazio al corpo e alla voce anziché alla messa in scena.

UNA LINGUA IBRIDA

È una recherche che accosta tale forma teatrale più alla filosofia ermeneutica che a uno specifico rimando drammaturgico o letterario. Ruccello mette in pratica un teatro basato sul concetto di voce/narrazione e sul corpo/testo, dunque una parola che si autonomizza radicalmente dalla scena attraverso un processo lacaniano che privilegia il rapporto con la lingua. Una lingua ibrida che commistiona suoni dialettali, lingua colta, linguaggio dei mass media, linguaggio ancestrale degli avi, e che certamente si distanzia dal dialetto della tradizione: una parlata della differenza, per dirla con Derrida. È interessante sottolineare che tra il linguaggio orale e il linguaggio scritto, quest’ultimo è considerato una forma contaminata e appestata del primo.
Da Le cinque rose di Jennifer (1980) a Ferdinando (1984) la drammaturgia di Ruccello indaga, attraverso l’adozione del carattere noir e ritmi da thrilling, sulla scomparsa dei miti/riti collettivi, sulla trasformazione dell’immaginario collettivo. La sua scrittura teatrale, che ricorre al dialetto non come forma di un teatro di tradizione ma come linguaggio di un teatro di sperimentazione, ha segnato rigorosamente il confine tra cultura dominante e cultura subalterna; c’è una re/invenzione della lingua e dei personaggi/corpi definiti, come accennato all’inizio, deportati dallo stesso Ruccello: orfani della loro cultura perché contaminata nel linguaggio e nei comportamenti dai modelli di vita borghese, vittime di un genocidio culturale – per usare un’espressione cara a Pasolini –, a cui si concede la sola via di fuga nel delirio, nell’incubo, nell’irrazionale, rendendo di fatto assai labili i limiti tra realtà e immaginazione.

LA TRILOGIA

Il voler raccontare mettendo in scena le ombre e l’avanzato stato di disgregazione e decomposizione della cultura popolare urbana, lo spingono a scrivere testi drammaturgici racchiusi nella Trilogia del quotidiano da camera: Le cinque rose di Jennifer, Notturno di donna con ospiti (1983) e Week end (1983). Opere in cui Ruccello formalizza il presentimento, il presagio di quelle mutazioni sociali atte a sconvolgere e alterare in profondità l’individuo anche a livello mentale. La mutazione antropologica è sempre in una proiezione onirica – da uomo a donna per Jennifer, da proletaria a borghese per Adriana, da emigrante del profondo Sud a insegnante per Ida. Solitudine, marginalità e follia, presenti nelle tre scritture, sono elementi in grado di definire, con dinamiche differenti, lo stesso effetto, ovvero la relazione sinistra e tormentata tra interiorità e esteriorità, tra interno ed esterno. Un mondo esterno infido, doppio che riesce a penetrare fra le mura domestiche attraverso persone e simboli della società massificata: radio, televisione, telefono. Ruccello, solitamente, ambienta le pièce in interni: il monolocale di Jennifer, la cucina di Adriana, il soggiorno di Ida, sebbene la camera non rimandi più al luogo e allo spazio eduardiani in cui viene ritratta e indagata la realtà con i problemi della famiglia piccolo-borghese. L’interno ruccelliano è un autentico bunker metafisico dove si scontrano i dilemmi dell’anima. La camera diventa luogo/spazio mentale in cui rifugiarsi fino ad arrivare al delirio solipsistico, perché ciò che proviene dall’esterno è vissuto come intimidazione, inquietudine, dolore, angoscia. Oltre a ciò, c’è da evidenziare che le protagoniste della Trilogia sono connotate da un significante: Jennifer è un travestito, Adriana è incinta, Ida è zoppa. Ne Le cinque rose di Jennifer, che rappresenta il dramma dell’attesa, della distanza, dell’ossessione, ci sono in nuce tutte le tematiche della produzione teatrale ruccelliana: dalla lingua afasica che è sia la chiave di lettura del suo teatro sia la spia più manifesta delle trasformazioni del tessuto sociale in un determinato momento e contesto storico, all’alterazione mentale che caratterizza l’universo femminile analizzato in chiave antropologico-psicologica.

LE PROTAGONISTE

Con Le cinque rose di Jennifer – debutto il 16 dicembre del 1980 al ’Na Babele Theatre, una sala interrata, ora chiusa, sui Quartieri Spagnoli di Napoli – Ruccello muove il primo passo verso l’autonomia drammaturgia che completerà con Notturno di donna con ospiti e Week end, opere assimilate dalla semplicità e dal minimalismo delle storie. Le protagoniste sono figure deboli, inserite in ambienti degradati; sono molto distanti dai modelli proposti dalla televisione e dal cinema, sebbene Ruccello le circoscriva entro schemi comportamentali e visivi propri dei mass media. Ecco, allora, che Jennifer ricorda una diva del cinema: una Greta Garbo, una Rita Hayworth di una qualsiasi periferia suburbana o una cantante che imita Mina o Patty Pravo – icone dell’immaginario gay -; tutto ciò immerso in un’atmosfera da thriller che richiama alla ente i film di Alfred Hitchcock o di Brian De Palma. Un altro elemento che ritorna e contraddistingue i lavori di Ruccello è quello fiabesco, presente in Week end e in Mamma. Piccole tragedie minimali (1986), seppur irrimediabilmente corrotto dalla televisione, dalla pubblicità, dalle telenovelas, dalle canzonette demenziali che fungono da sottotesto all’intera azione teatrale e non da mero sottofondo. Ruccello lavora, rielaborandola, anche a La Ciociara di Alberto Moravia – debutto 8 novembre 1985 al Teatro dell’Orologio di Roma -. Ecco cosa scrive a proposito della sua riscrittura della tragedia vissuta da Cesira e dalla figlia Rosetta: «È un dramma, sì, ma anche, e forse principalmente, un corto circuito culturale, il passaggio da una cultura all’altra, emblematico, poi, di una generale condizione italiana. Cesira, infatti, passa da una cultura arcaico-borghese a un’altra violentemente neo-borghese e consumista».

Nel 1985 riceve il premio IDI come novità italiana per Ferdinando che vede l’anteprima il 28 febbraio 1986 al Teatro Comunale di San Severo (FG) e il debutto al Teatro Cilea di Napoli per la Stagione Teatrale 1985/86. Con l’allestimento di Ferdinando, Ruccello si segnala all’attenzione nazionale e assapora quella che lui definisce «l’ufficialità del sipario rosso».

FERDINANDO

Da questo punto di vista Ferdinando è un’opera fondamentale, di cui Franco Quadri dice: «È un grande testo sulla lingua vista come modo di resistenza; un modo di comunicare i dialetti e con i dialetti» in cui confluiscono tutti gli spettri letterari, teatrali e cinematografici di Ruccello: Proust, De Roberto, Tomasi di Lampedusa, Pasolini, Mann, Visconti, Genet. È una lingua «chiantuta» (robusta), per ribadire l’aggettivo attribuito all’idioma napoletano in quella «Posillecheata» di Pompeo Sarnelli che Clotilde di Ferdinando fa leggere a Gesualda a mo’ di antidoto contro il veleno dell’italiano diffuso dai Piemontesi: «’Na lengua straniera!… Barbara!… E senza sapore, senza storia!». Una scrittura drammaturgica di straordinario vigore in cui la stratificazione linguistica e le citazioni coltissime fanno intendere la complessità intellettuale di Ruccello che non trascura mai di verificare quella parola/verbo e quella trama alla luce, per l’appunto, dei processi storici e delle trasformazioni sociali in atto.

Sempre nel 1986 termina la stesura del monologo Anna Cappelli, che narra un’altra condizione esistenziale perduta attraverso situazioni da vero e proprio thrilling. Le opere dei nuovi drammaturghi possono ricollegarsi a Genet, Pinter, Beckett, Artaud, ossia al teatro della malattia e del malessere. Ruccello è consapevole di ciò e s’intuisce ancor di più citando Artaud: «Le convenzioni teatrali hanno fatto il loro tempo. Abbiamo bisogno che lo spettacolo a cui assistiamo sia unico e che ci dia l’impressione di essere imprevisto e irripetibile come qualsiasi avvenimento prodotto dalle circostanze. Con questo teatro, insomma, ci ricolleghiamo alla vita invece di separarcene. Ecco l’angoscia umana in cui lo spettatore dovrà trovarsi uscendo dal nostro teatro». (…)

*Pubblichiamo una parte del saggio di Domenico Sabino, dell’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa