Un crimine orribile, così Henry James marchiava le voci narranti piene di sé tipiche dei romanzi di un tempo, vale a dire quei romanzi in cui lo scrittore o chi per lui si rivolge direttamente al lettore, presentandosi, come si fa in società, e spiegando i perché e i percome della storia che si appresta a narrare e della quale è naturamente il personaggio principale, se non l’unico degno di nota. Voci, in sostanza, come quella dell’opera prima di Martin Amis, Il dossier Rachel resa come meglio non si potrebbe da Federica Aceto in una traduzione fresca di stampa (Einaudi, pp. 276, euro 17,00): «Mi chiamo Charles Highway, anche se a guardarmi non si direbbe. È un nome slanciato, che ha viaggiato molto, un nome cazzuto e, a guardarmi, io non sono niente di tutto questo».

Qualche riga dopo, non contento di un simile attacco, l’allora ventiquattrenne scrittore illustra anche il proprio timbro vocale, affinché il lettore possa figurarsi, oltre alla complessione non proprio attraente di Highway, il suono delle parole che andrà leggendo: «Ho una di quelle vocette stridule che adesso vanno tanto, caratterizzata dal tono nasale un po‘ ironico che funziona alla grande quando si vuole dare sui nervi ai matusa». Nel 1973, quando Il dossier Rachel apparve in libreria, Henry James era defunto da un pezzo ma il disgusto per il narratore stridulo gli sopravviveva e, per vari versi, gli sopravvive tuttora, giacché è il disgusto che appartiene alla narrativa moderna nel suo complesso o che tale si sente: appartiene cioè a quegli scrittori che tendono a pensarsi non come bocche che parlano ma come osservatori muti e erranti, occhi che cadono sui fatti come per caso e in media res, dotati di quella distanza che è propria delle macchine fotografiche.

Escluso dunque che lo stridulo giovinastro volesse irritare proprio Henry James. Il fatto che volesse dare sui nervi a qualcuno era però lui stesso a dirlo. Chi era allora il bersaglio? Si riferiva ai vegliardi in genere o aveva in mente un bersaglio in particolare? Un candidato ideale, anzi il candidato per eccellenza, Amis lo aveva in casa, il padre, il quale, essendo docente oltre che scrittore, aveva fatto crescere il figlio in cittadine universitarie come Princeton e Cambridge, ovvero nelle migliori culle del mondo accademico, da sempre ricettacolo di matusa. Inoltre, stando a quanto raccontato dallo stesso Martin in un’intervista, fu proprio il padre Kingsley a dire al figlio che «quando uno scrittore di venticinque anni prende in mano la penna sta dicendo allo scrittore di cinquanta che le cose non sono più così ma così».

Non per nulla quasi mai i critici hanno resistito alla tentazione di confrontare l’opera prima di Martin Amis con Lucky Jim, romanzo d’esordio del padre, in alcuni casi per marcarne le differenze, vedendolo dunque come il prodotto del nuovo che vuole scalzare il vecchio, in altri casi per segnare le somiglianze che ne farebbero invece un tentativo di emulazione. Non è ovviamente mancato chi ha letto la filiazione in chiave malevola, per esempio il recensore del New York Times che, ironizzando sul soffietto presente nalla sovraccoperta della prima edizione (soffietto scritto da Auberon Waugh, figlio di Evelyn), si domandò: «Esiste un club per gli scrittori figli di scrittori?» Anche la sorte ci mise la sua buona dose d’ironia, perché Il dossier Rachel si gadagnò lo stesso premio vinto due decenni prima da Lucky Jim, il Somerset Maugham Award, riservato per giunta a scrittori giovani.

Che i due libri abbiano più di un punto di contatto è di tutta evidenza. Entrambi presentano quale protagonista un ragazzo decisamente acculturato, un intellettuale alle prime armi, alle prese con l’ambiente universitario. Entrambi i romanzi sono inoltre commedie satiriche centrate sul trauma più tipico della giovinezza, la disillusione. Esistono, lo si è detto, anche differenze, e quella che salta immediata agli occhi è proprio la voce garrula di un narratore che parla in prima persona, «crimine» assente in Lucky Jim. Difficile pensare che Amis non fosse consapevole di tutto ciò, visto che il suo libro contiene, sebbene soltanto evocata, anche una lettera di Charles Highway al padre, un testo di una trentina di fogli protocollo mai spedito perché oggetto di ripetute correzioni e ripensamenti e nel quale può leggersi sia la versione trasfigurata di una lettera di Martin a Kingsley, sia una parodia della lettera di Kafka al padre, modello ideale del rapporto contrastato di ogni scrittore (e di ogni figlio in genere) col proprio genitore. Probabile perfino che Amis abbia accettato un soffietto del figlio di Waugh ben sapendo di esporsi a battute velenose.

Insomma tutto lascerebbe pensare che quella d’irritare i matusa sia più una posa che un’intenzione sincera. Questo motivo resta difatti sfumato, risuona alla maniera di un’eco lontana sullo sfondo di quello che, almeno in apparenza, si pone come il tema centrale, la conquista di una ragazza inarrivabile, la Rachel del titolo. Dire che Charles ne sia innamorato sarebbe improprio, essendo le sue mire sono di natura perlopiù fisica. Vuole farsela, semplicemente. A volere essere ancor più precisi, Charles è sospeso tra il volere e il dovere. Nella sua visione del mondo gli adolescenti «fanno sesso per aggiungere un nuovo nome alla lista, per farsi un’altra tacca sul pisello». Una volta superata la soglia dell’età adulta, ovvero superati i vent’anni, il sesso diventa una cosa che va fatta, una specie di obbligo nei confronti del proprio partner mentre prima, da adolescenti, l’obbligo è escusivamente verso se stessi.

Sulla seconda parte di questa aberrante teoria, che fa della donna un corpo deputato all’assolvimento di un dovere, Charles può ragionare soltanto per ipotesi non avendo ancora passato il guado. Gli manca tuttavia pochissimo, tra poche ore avrà vent’anni anche lui, e proprio nell’essere un diciannovenne ormai terminale, Charles individua la sua caratteristica principale, il che è come dire che il suo tratto dominante è quello di essere una persona sospesa tra due mondi o, per meglio dire, tra due tempi. In lui convivono due Charles, l’adolescente che ormai non è più e l’adulto che tra poco gli toccherà essere. La condanna è senza appello: Charles, infatti, vede nell’idea della gioventù come età interiore una dottrina malefica colpevole di avere generato «cinquantenni che schiantano a terra morti con una tuta da ginnastica con addosso la tuta da ginnastica, hippy allampanati che crepano di overdose e froci amanti del rischio che si fanno spaccare i denti da automobilisti selvaggi».

Anche il padre viene presentato come un prodotto di questa iattura, giacché tra le caratteristiche «meno attraenti» del genitore Charles annovera il fatto «che più invecchia più è in forma». A ben guardare dunque, le cose stanno esattamente all’opposto di come il nostro eroe le pone: non è lui, con la sua voce stridula, a irritare i matusa, bensì i matusa, con le loro pretese di vivere più a lungo e di non essere in fondo così vecchi, a irritare lui. In questo quadro, la conquista di Rachel assume un valore fondamentale non tanto perché sia particolarmente bella e desiderabile, quanto perché è più grande di lui. È un punto sul quale Charles insiste molto, quasi ricalcasse le orme del protagonista dell’Educazione sentimentale. L’oggetto delle sue mire però, diversamente dalla matura signora Arnoux, non ha che un mese più di lui. Ma tanto basta a collocarla al di là della linea d’ombra, a farne lo specchio delle sue ossesioni. Forse è un azzardo interpretativo, ma potrebbe non essere un caso che a Rachel manchi soltanto una esse per essere l’anagramma di Charles. La esse, la lettera che in inglese marca il plurale.

Narrato nell’arco di cinque ore, quelle che precedono lo scoccare della mezzanotte e il compimento del ventesimo compleanno, Il dossier Rachel, romanzo d’esordio come pochi, iperletterario e percorso da un cinismo che sa già di punk, si configura quindi come un’attesa del momento fatidico che sancisce la fine della giovinezza, l’età della voce stridula, delle illusioni solipsistiche, dell’Io che può contenere moltitudini perché non ancora obbligato a essere una persona, una qualunque tra le tante.