La Repubblica islamica d’Afghanistan ha un nuovo presidente. O forse due. Dopo quasi cinque mesi dalle elezioni del 28 settembre 2019, più volte rimandate e contrassegnate da scarsa affluenza, attacchi dei Talebani, problemi tecnici e irregolarità del voto, ieri Hawa Alam Nuristani, a capo della Commissione elettorale indipendente, ha dichiarato che a vincere è stato il presidente in carica, Ashraf Ghani. Con 924 mila voti circa avrebbe ottenuto il 50,64% delle preferenze, rispetto al 39.52% (721 mila circa) ottenuto dal principale sfidante, Abdullah Abdullah, con cui Ghani condivide la leadership del governo di unità nazionale nato nel settembre 2014 dopo un’accesa controversia sui risultati delle presidenziali.

COME ALLORA, anche questa volta Abdullah non accetta i risultati. Ghani ieri ha avuto appena il tempo di celebrare la vittoria, assicurando unità e pace per il Paese, invocando spirito di coesione e fratellanza che Abdullah gli ha risposto duramente. «La mia è una vittoria della Repubblica», ha sostenuto Ghani, che in questi mesi ha indossato le vesti del fiero difensore dell’ordine costituzionale rispetto ai cedimenti verso le richieste dei Talebani, che invocano «un vero sistema islamico» come esito dei colloqui di pace in corso con gli americani e, poi, eventualmente, con i politici afghani. «Hanno vinto le frodi», altro che la Repubblica, ha ribadito Abdullah. «L’annuncio di oggi è un colpo contro la democrazia. Dichiariamo illegali i risultati. Abbiamo vinto noi e formeremo un nostro governo, ampio e inclusivo».

UNA POSIZIONE CHE RISCHIA di far deflagrare il panorama politico, già diviso e frammentato, ma che non sorprende del tutto. Abdullah – e altri candidati tra cui l’ex direttore dei servizi segreti Rahmatullah Nabil – contestano la regolarità del voto sin da prima del giorno delle elezioni. I sostenitori di Abdullah per quasi un mese hanno impedito il riconteggio dei voti in alcune province del centro e nord del Paese. Per settimane, si è discusso sulla regolarità o meno di circa 300.000 voti (su 1,8 milioni totali). Per Abdullah e altri, almeno 100.000 di questi erano del tutto irregolari e attribuiti ingiustamente a Ghani.

L’ipotesi della transizione da un governo di unità nazionale, bicefalo, a un duplice governo arriva in un momento delicatissimo: tra pochi giorni – qualcuno dice il 22 febbraio – dovrebbe iniziare la tregua di 7 giorni tra Washington e i Talebani, che coinvolge anche le forze di sicurezza locali. Se dovesse reggere, ci sarà poi la firma del trattato di pace, a lungo discusso a Doha tra l’inviato di Trump, Zalmay Khalilzad, e la delegazione talebana. Dopo dieci giorni è poi previsto l’avvio dei negoziati intra-afghani.

ORA TUTTO POTREBBE SALTARE. I Talebani dichiarano che la vittoria di Ghani «è senza basi giuridiche», che «un’elezione sotto occupazione è una farsa», «solo polvere negli occhi della nazione». Il solito copione. Ma aggiungono un dettaglio rilevante: l’elezione di Ghani «va contro il processo di pace». Ghani si è caparbiamente conquistato un posto nei futuri, eventuali colloqui intra-afghani. Ma la sua vittoria è monca: manca di vero consenso popolare, sconta la scarsa legittimità e rappresentatività del voto.
Forse Washington e la comunità internazionale riusciranno a portare Abdullah e i suoi verso posizioni più concilianti. Ma per ora a festeggiare sono soprattutto i Talebani: la democrazia esportata con le armi non funziona, hanno sempre detto. L’impasse politica afghana sembra dimostrarlo.