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Enrico Deaglio è sempre stato, nei suoi libri, in equilibrio fra il giornalismo, la Storia e la narrazione. Il bellissimo Patria 1978 – 2008, ad esempio, raccontava gli ultimi trent’anni di vicende italiane srotolandoli come un lungo telegiornale: un libro di Storia a tutti gli effetti, dunque, ma sottoforma di «cronaca a scoppio ritardato». Deaglio, in altre parole, si è sempre proposto con la modestia del cronista, ma forte di una profondità da storico, ed è uno scrittore tout court, come ora conferma Storia vera e terribile tra Sicilia e America, appena pubblicato da Sellerio (pp. 214, euro 14).

Siamo negli Stati Uniti: a Tellulah, nella contea di Madison, estremo nord-est dello Stato della Louisiana. È il 20 luglio 1899, una caldissima sera d’estate. Cinque immigrati italiani vengono linciati dalla folla, mediante impiccagione. Sono i tre fratelli Defatta (Giuseppe, Francesco e Pasquale), Rosario Fiduccia e Giovanni Cirami; hanno fra i ventitre e i cinquantaquattro anni. Tutti e cinque vengono dalla Sicilia, da Cefalù, e sono commercianti di frutta e verdura; sono dunque cinque dagos, come venivano chiamati gli immigrati siciliani, forse da dagger, che significa «stiletto», o più verosimilmente (quantomeno secondo Deaglio) da una versione sporcata dell’espressione as the day goes, che indicava chi veniva assunto come lavorante «a giornata».

Tutto nasce da un episodio piccolo, apparentemente, e tutto dura meno di ventiquattro ore: una capra di uno dei Defatta ha brucato l’erba, quella mattina molto presto, dove non doveva, nel prato dell’ufficiale sanitario del paese, il dottor Hodge, il quale per questo la uccide con un colpo di pistola. Cosa succede dopo? Secondo la versione ufficiale, il gruppo dei siciliani avrebbe deciso di vendicarsi e, quella sera stessa, uno di loro avrebbe aggredito il dottore; ne sarebbe derivata una lite violenta, dalla quale il dottore sarebbe uscito gravemente ferito. E qui un folto gruppo di cittadini inizia una caccia all’uomo (perché questo è il linciaggio, da dizionario: un’esecuzione sommaria perpetrata da un gruppo di cittadini nei confronti di una persona colta in flagrante o ritenuta colpevole di un delitto molto grave), alla fine della quale i cinque siciliani vengono catturati e subito dopo impiccati, mentre un sesto, siciliano di Cefalù a sua volta, riesce a scappare.

Quando viene a conoscenza dei fatti, Deaglio intuisce che «la storia era molto più grande di così», e cioè «più orrenda, più infame, più misteriosa, ma anche più avventurosa e quasi fiabesca»; e il libro, che da questa intuizione nasce, ne costituisce la spiegazione del perché. Non c’entra la capra, secondo Deaglio. C’entra invece l’emigrazione dei siciliani, che era iniziata pochi anni prima, verso l’America, dove i siciliani avrebbero dovuto prendere il posto dei «negri» nelle piantagioni di cotone, perché i «negri» avevano perso parte della loro affidabilità; e c’entra il «vento freddo» che accompagnava quell’emigrazione. C’entrano la disillusione che induceva alla partenza (perché Garibaldi era stato una promessa di libertà non mantenuta), l’illusione del riscatto che l’America doveva essere, la nuova disillusione che per molti ne sarebbe seguita, l’ostilità degli americani nei confronti dei nuovi arrivati, la convinzione che fossero una «razza inferiore», non dei «negri» ma dei «negroidi» da trattare come i primi erano stati sempre trattati, e c’entrano dunque anche le teorie razziste dell’epoca, tanto italiane quanto americane; c’entra però anche il timore dell’ascesa di una nuova classe sociale, perché pur fra stenti e fatiche i siciliani si stavano facendo valere. C’entra tutto questo insieme.

Deaglio indaga, raccoglie documenti e prove e scopre la fragilità della versione ufficiale dei fatti, poi cerca ancora, si confronta, si interroga, e alla fine la sua versione è diversa: il dottor Hodge era stato semplicemente un «consapevole, freddo, agente provocatore usato da chi voleva eliminare i siciliani dalla parrocchia» e il linciaggio di Tellulah uno dei primi casi americani di «uso della folla per motivi politico-economici».

Oggi, a distanza di tanti anni, potremmo dire che i cinque siciliani da Cefalù, nel loro ruolo di vittime, e nel loro essersi trovati «al centro di una particolare congiunzione astrale, fatta di geopolitica, schiavitù, grandi calcoli economici», rappresentarono un simbolo involontario. E nello sguardo di uno di loro, tramandatoci da una foto, a Deaglio sembra di rivedere il medesimo sguardo dell’ignoto ritratto da Antonello da Messina, nel quale secondo qualcuno sarebbe racchiusa l’espressione di un vero e proprio «universale carattere italiano».