Sette anni dopo Piazza della Perla, la primavera bahreinita soffocata nel sangue dall’esercito saudita, la repressione del regime degli al-Khalifa non cessa. Il 14 febbraio, anniversario delle proteste del 2011, migliaia di manifestanti a Manama sono stati aggrediti con lacrimogeni e proiettili, decine gli arresti.

E ieri la punizione collettiva è proseguita: l’attivista Nabeel Rajab, uno dei leader della sollevazione, è stato condannato a cinque anni di prigione per dei tweet in cui criticava l’operato del governo e dell’Arabia saudita in Yemen. Niente di nuovo sotto il sole bahreinita: Rajab è già in carcere, dove sconta una condanna di due anni per «diffusione di notizie false» (in un’intervista del 2015 denunciò le torture subite dai prigionieri politici).

Reati di opinione che il regime della minoranza sunnita traduce nell’oblio della maggioranza sciita e di ogni voce critica: partiti politici al bando (lunedì la Corte di Cassazione ha confermato la sentenza di dissoluzione del partito sciita di opposizione al-Wefaaq), organizzazioni chiuse, giornali censurati, cittadinanze revocate.

«Questa sentenza è l’esempio di come i tribunali bahreiniti stiano riducendo la libertà di espressione e impedendo ai cittadini di criticare le autorità», ha detto Sayed Ahmed al-Wadaei, direttore dell’Istituto del Bahrain per i diritti e la democrazia.

Ma alle proteste delle organizzazioni per i diritti umani di tutto il mondo, non si aggiungono quelle dei governi occidentali: il Bahrain resta partner centrale per gli Usa (qui staziona la V Flotta) e acquirente di armi da Washington, Londra, Parigi.