Dopo la fine del secondo conflitto mondiale l’Italia è un paese lacerato, non solo nelle sue parti più fragili, le città, ma anche nelle menti degli architetti, dapprima interpreti del fascismo e poi fautori della ricostruzione, alle prese con la difficile scelta di quale linguaggio applicare alle opere dopo tanto orrore.
Comunità Italia. Architettura, città e paesaggio dal dopoguerra al Duemila, la mostra in corso alla Triennale di Milano a cura di Alberto Ferlenga e Marco Biraghi (visitabile fino al 6 marzo), pone la questione della produzione architettonica degli ultimi cinquant’anni, non senza alcune ombre nella selezione dei lavori e dei punti di vista storico-critici che presenta.
Quello che emerge è una comunità di architetti e architetture eterogenee. Se da una parte troviamo ancora i maestri del moderno come Franco Albini, Figini & Pollini, Gio Ponti, Giovanni Michelucci, impegnati nella riformulazione dei loro linguaggi (da adattare al mutato clima culturale), dall’altra, c’è la proliferazione di architetti che si sono formati a partire dal movimento moderno, ma dal quale hanno preso le distanze, come tutta l’ampia truppa di postmoderni (non solo come fattore temporale): Aldo Rossi, Arduino Cantafora, Giangiacomo D’Ardia, Costantino Dardi, Massimo Scolari, Luciano Semerari e molti altri. «Architetti-maestri» che, attraverso l’occupazione delle scuole di architettura con Aldo Rossi principale alfiere, hanno formato centinaia di professionisti che hanno operato la distruzione della cultura architettonica italiana.

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Non è un caso che il postmoderno inconsapevole attuato da geometri, ingegneri e architetti (questi ultimi più consapevoli degli altri) abbia determinato l’espansione della città italiana con i suoi archetipi di villette e condomini, spesso di pessima qualità architettonica e costruttiva. Operazioni speculative le cui scelte progettuali sono state giustificate dai comportamenti dei «maestri». Come è accaduto a Cusago, nell’hinterland milanese, dove una delle quattro case sperimentali di Renzo Piano, costruite negli anni ’70, è stata sostituita da un’abitazione vernacolare in pietra e intonaco giallo-rosa, la seconda demolita quest’anno, e delle due restanti una è ancora integra e l’altra è all’asta a rischio demolizione.
Non è occasionale che proprio nella mostra milanese si parli di un «caso Piano», osteggiato dalla critica militante di Tafuri-Dal Co, nel suo periodo più interessante quello del Beaubourg, delle sperimentazioni nella spiaggia di Voltri, del recupero del Lingotto e, appunto, delle case sperimentali. Così dopo Piano che risponde in modo solitario al monopolio del postmoderno, la rassegna avrebbe potuto evidenziare la non eccezionalità della produzione architettonica dell’ultimo cinquantennio. Ma non accade perché i curatori sono nati in quella cultura che stava colonizzando il dibattito nelle università e nelle riviste.

La comunità italiana degli architetti negli ultimi cinquant’anni ha costruito in contesti molto diversi, dal punto di vista economico, socio-culturale e geografico: dal Villaggio Eni di Edoardo Gellner a Borca di Cadore alla ricostruzione del Teatro Carlo Felice di Aldo Rossi a Genova, dalla tomba Brion di Scarpa alla casa Cei di Ettore Sottsass jr, dal Pirellone di Ponti all’Università di Las Palmas di Polesello. In questi abbinamenti forzati appare evidente lo scontro tra sperimentatori (vinti) e postmoderni (vincitori) dove dell’uso della parola comunità non c’è nessun riscontro reale.
Fare comunità, titolo marcatamente olivettiano, significa avere un ideale, un obiettivo, invece le architetture selezionate non hanno nulla in comune. È una comunità sorda, senza dialogo tra i suoi componenti, di architetti antagonisti gli uni contro gli altri. Ma la mostra, al di là della contrapposizione ideologica, pone alcuni interrogativi più generali sull’efficacia degli allestimenti espositivi. Uno di questi riguarda il display espositivo stesso che, dopo un secolo, è ancora uniformato alla presenza di oggetti fisici come i plastici e i documenti cartacei (talvolta sostituiti da artefatti per ragioni di budget), con un uso dei video finalizzato a colmare le lacune del contenuto.

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La scelta di puntare su un allestimento diverso per ogni stanza tematica è interessante ed emerge in maniera più forte del contenuto. Se analizziamo le stanze dell’editoria e del cantiere, la «messa in scena» va in soccorso ai pochi materiali presentati. Nel primo caso, una serie di libri rappresentati dalle fotocopie delle copertine su forex illustrano la produzione editoriale più significativa, mentre i quello del cantiere una serie di pali metallici, che riproducono i ferri dell’armatura del cemento, testimoniano come sia più importante stupire e spettacolarizzare.
In questa alternanza di display, la parte centrale della mostra è quella più riuscita: qui sono collocati i settanta plastici originali, realizzati in cartone, legno, plastica, sintomo di diversi approcci progettuali. Così una rassegna di architettura non sperimenta l’uso delle nuove tecnologie – ologrammi, realtà aumentata, suoni e schermi interattivi, come ha fatto in parte Use (curata da Stefano Boeri in Triennale nel 2002) – per rifugiarsi in un allestimento più tradizionale e sicuro, dove la fotografia, sempre considerata arte minore, occupa un soppalco buio con alcune immagini di Basilico, Ghirri, Guidi. Questo accade nonostante l’importanza che la fotografia ha avuto e ha tuttora nel racconto dell’architettura e delle trasformazioni urbane.