Per sposare una donna cinese non serve la dote. Di certo, per i trentenni egiziani, che per ristrettezze ritardano l’età del matrimonio, una moglie orientale è un buon compromesso per far fronte alla crisi economica.

Non solo, il presidente egiziano Abdel Fattah Sisi ha già assicurato che punterà sull’asse tra Cairo e Pechino per attrarre gli ingenti investimenti cinesi in Medio oriente.

Nei prossimi anni, la Cina investirà 18 miliardi di dollari nel «corridoio economico» che attraversa il Pakistan per raggiungere il Golfo persico. L’espansione degli investimenti cinesi non si ferma a Islamabad e raggiungerà il continente africano.

E in particolare l’Egitto: quarto paese in Africa per scambi bilaterali con la Cina, tendenza in crescita dai 4 miliardi di dollari del 2007 agli oltre 10 del 2013. Nel marzo del 2014 è stato siglato un accordo tecnico tra governo cinese e autorità egiziane che concederà al Cairo una linea di credito non rimborsabile pari a 24 milioni di dollari.

Dalle rivolte del 2011, la Cina ha garantito 120 milioni di dollari e 304 in prestiti per progetti nel settore agricolo, ferroviario e delle piccole e medie imprese in varie città egiziane, tra cui Suez, la città satellite del Cairo 6 ottobre e Munufeya. Il direttore dell’autorità generale della zona economica nord-orientale di Suez, Mohammed Refaat ha annunciato la firma di nuovi contratti con il costruttore cinese Teda. Il progetto di una zona di scambio commerciale sino-egiziana a Suez era nato dopo la visita a Tiajin dell’ex presidente Hosni Mubarak.

Il progetto prevedeva che materiali grezzi venissero esportati dall’Egitto e il prodotto finito importato dalla Cina nel mercato egiziano senza dazi. E così, con le liberalizzazioni degli anni duemila, l’Egitto è stato invaso di prodotti cinesi a basso costo: dai giocattoli agli elettrodomestici, dall’aglio all’abbigliamento. Ora la Cina (con oltre il 15%) è il secondo paese per importazioni in Egitto dopo gli Stati Uniti.

L’«invasione»

Eppure la crescente presenza cinese è ancora una novità per i cairoti. Fino a pochi mesi fa, le giovani cinesi in minigonna che circolavano pubblicizzando saloni di massaggio, attiravano la curiosità morbosa dei più anziani. I media negli ultimi anni hanno parlato di «invasione cinese», trasformando le poche migliaia di cinesi in Egitto nei messicani degli Stati uniti.

Anche la «sposa cinese» è diventata sinonimo di un prodotto a basso costo, come racconta l’antropologa Jessica Winegar in The moral panic over Chinese in Egypt (Merip, 2014). E così la polizia ha più volte attaccato i saloni per massaggi, gestiti da cinesi, con il pretesto della lotta alla prostituzione.

Non vale lo stesso discorso per la minoranza uighura, i musulmani cinesi, abitanti dello Xinjiang. L’Egitto, e in particolare la moschea al Azhar sono stati, dagli anni Trenta, una destinazione importante per gli studi coranici dei musulmani cinesi. I viaggi verso l’Egitto vennero interrotti durante la Rivoluzione culturale e ripresero negli anni Ottanta. Sono oltre dieci mila poi i lavoratori cinesi impiegati nelle aziende di costruzione di Pechino in Egitto.

Fratellanza e uighuri

Spuntano come funghi nuovi ristoranti di cucina cantonese, gestiti principalmente da uighuri. Shu Hui Di, 23 anni, si fa chiamare Mohammed Ibrahim, è sbarcato al Cairo un anno fa da Ningxia. Ha iniziato a studiare arabo in Cina ma non poteva che completare qui la sua carriera universitaria. «Vivo con un altro studente ad Abbasseya, nel centro antico del Cairo, i miei genitori mi mandano 500 dollari al mese e 200 li uso per pagare l’affitto. Studio l’arabo perché mi servirà, tra sette anni tornerò in Cina e mi occuperò di import-export con il Medio oriente», ci spiega.

Shu Hui si lancia in un’analisi politica. «Se Morsi (ex presidente deposto con un golpe nel 2013, ndr) fosse rimasto più tempo al potere avrebbe fatto bene al paese». E poi il giovane inizia con le lamentele: «Qui in Egitto tutto inizia così tardi, in Cina dalle sette di mattina alle sette di sera sono tutti freneticamente al lavoro», chiude Shu.

Hanafi, 23 anni, è seduto ad uno dei tavoli. È malese e studia legge islamica. Vive a Nassr City ed è qui perché in Cina non esiste un «vero» corso di sharia. «Le rivolte in Egitto mi hanno dato coraggio ma per tre mesi sono dovuto rientrare in Malesia perché siamo stati evacuati dal governo. Sono un sostenitore della confraternita dei Fratelli musulmani malesi, per questo ero curioso delle attività della Fratellanza in Egitto».

China Town e russi

Qansu viene da Linxia, è da sette mesi al Cairo, è il tutto fare di uno di questi minuscoli ristoranti. «Ancora non capisco il dialetto egiziano, ci sono voluti mesi per comprendere quando i bambini che passano in macchina ci insultano, insieme ai loro genitori, perché siamo cinesi». Spicca l’insegna dell’osteria che affianca le piramidi alla muraglia cinese, sullo sfondo si intravedono le immancabili immagini di La Mecca.

All’esterno sono raccolti piccoli tavoli, all’interno risaltano due preghiere in oro su sfondo nero. Qansu ci mostra il menù con le foto dei piatti che risalta su ogni tavolo. I cibi più richiesti sono chao mian con maccheroni, verdure e carne; niu rui mian: zuppa di carne con maccheroni.

La cuoca del ristorante è una ragazza con un velo bianco a pois che cucina insieme al suo giovane marito. Qansu ci invita a passare una giornata con lui. I cinesi del Cairo vivono a Ayn Sina, la China Town egiziana, quartiere periferico che si trova una volta superata l’area dei grandi mall di Medinat Nassr. Ma chi visita questa zona nota subito che qui non vivono solo cinesi, ma anche russi, ceceni, tagiki e daghestani. Il cirillico è forse la lingua più usata da queste parti. Gli uomini qui vestono in galabya bianca o grigia e hanno una lunga barba.

Ci fermiamo a parlare con i due soli egiziani che vediamo per le strade del quartiere. «Conduciamo vite parallele né ci infastidiscono né siamo amici», ci spiegano Mohammed e Moataz. «Vivo da nove anni al Cairo, parlo male il dialetto egiziano», ci spiega un giovane cinese che si fa chiamare Ahmed e passeggia con un amico.

Eppure qui i nuovi arrivati sembrano i benvenuti. Intorno alla moschea Lisa al Salam si attardano giovani russi in motocicletta con lunghe barbe incolte. All’esterno della moschea si pubblicizzano corsi di lingua per l’insegnamento dell’arabo per stranieri. Poco più avanti, in un piccolo studio, un medico cinese attende i suoi clienti per praticare, come ogni settimana, l’agopuntura.