Alla fine di giugno del 1986 veniva distribuito in sala un film di Jim Henson, Labyrinth, frammento ineludibile dell’universo mitopoietico condiviso dalla generazione dei nati nei Settanta. La pellicola, imbevuta di atmosfere gotiche e di stravaganze vittoriane, si incentrava sulla parabola morale imbastita attorno al tema di una magica sparizione, succeduta dall’inevitabile coming of age della sua deliziosa protagonista.
Il volto della ragazza era affidato ai lineamenti dell’americanissima Jennifer Connelly, appena quindicenne, sopravvissuta agli incubi entomologici di Dario Argento e ancora eterea, nonostante un transito laborioso attraverso l’epica newyorkese narrata da Leone: tuttavia, il lungometraggio ambiva allo status di cult soprattutto nella scelta del capriccioso antagonista, il vano e glamorous re dei goblin, per il quale si era riusciti ad arruolare un David Bowie di recente rientrato da Berlino (mentre era intento a battere un percorso felice di divo sul grande schermo). Il cantante scrisse anche cinque canzoni della colonna sonora, curata per lo score da Trevor Jones; e tuttavia neanche questo contributo eccezionale sarebbe servito a garantire al film la buona accoglienza sperata.
Non ci si stupisce, ad analizzare retrospettivamente i rovesci di tale fortuna: è infatti solo la giusta prospettiva storica a consentire oggi, oltre il gusto per un camp artificiato, di riordinare in posizione preminente un’opera segnata da un clamoroso insuccesso di pubblico e critica. L’impossibile parrucca indossata per quel ruolo da Bowie data, lo dicevamo, al 1986; e costituisce la seconda immersione nel fantasy integrale di un regista – Henson per l’appunto – noto alle platee casalinghe o cinematografiche piuttosto come padre prolifico e come squisito, sensibile manovratore del rocambolesco teatro di burattini passato, fra continente vecchio e nuovo, sotto al nome di Muppet Show, il programma televisivo prodotto dall’ITC Entertainment e andato in onda per cinque stagioni fra il 1976 e il 1981.
L’altra fiaba, ispirata ad atmosfere tolkieniane, che aveva allontanato l’inventore di Kermit dalla rana parlante e dai suoi amici, era stata, nel 1982, il racconto titolato The Dark Crystal; e se questo primo tentativo aveva ripetuto la coerenza ‘creaturale’ caratteristica degli sketch più celebri dei Muppet, proponendo un cosmo esclusivo di presenze animate, naturalistiche e ‘umane’, rese vive dall’abilità di un gruppo affiatato di marionettisti, la pellicola successiva aveva scelto di far interagire un esercito di pupazzi con un cast di attori, dilatando a plot romanzesco la trovata delle ospitate di grido al centro della serie televisiva da poco conclusasi, popolare al punto da procurarsi guest stars come Rudolph Nureyev, Diana Ross o Steve Martin.
Certo, c’era stato Pomi d’ottone e manici di scopa con una già eterna Angela Lansbury: ma Chi ha incastrato Roger Rabbit? sarebbe arrivato solo nel 1988, per venir superato nel 1993 dal capolavoro spielberghiano su genetica e dinosauri, il Jurassic Park d’esordio. Henson si dimostrava dunque al corrente rispetto alla ‘direzione’ intrapresa da un intero immaginario e si adoprava per rispondere con le proprie armi all’esponenziale incremento fantastico che continuava a caratterizzarlo, grazie al ricorso a un’effettistica via via più sofisticata; nel far questo poi la sua démarche ribatteva sulla contemporanea esperienza di George Lucas, per il quale – non a caso – si era trovato a realizzare lo Yoda snodato al centro de L’Impero colpisce ancora nel 1979.
Il mondo colorato, di gommapiuma e pannolenci, plastica e fil di ferro, del marionettista-regista si ricollega così all’avvento del digitale, che ha stravolto per sempre le coordinate compositive di qualsiasi inquadratura cinematografica (Labyrinth fu tra i precursori nell’impiego della computer animation per la bella sequenza dei titoli di testa); in tal modo la sua traiettoria, radicata con consapevolezza nella tradizione arcaica del ‘puparo’, riassume l’attualità che una morte precoce, nel 1990, sembra in certo modo avergli negato.
Ha senso quindi che l’esposizione permanente riservata a Henson nelle sale del Museum of the Moving Image (NY), per cura di Barbara Miller, si concluda su questo capitolo della sua attività, dando il giusto rilievo ai costumi straordinari per la pellicola del 1986: proprio perché, dal punto di vista della lettura critica, l’allestimento accoglie la prospettiva ermeneutica messa in risalto dalla recente biografia consacrata all’autore statunitense, edita da Brian Jay Jones nel 2013, quella per cui – nelle parole dello stesso ideatore di Gonzo e compagnia – la sua intera produzione andrebbe interpretata in chiave di «filmografia sperimentale».
Gli spazi del museo destinano infatti molte vetrine all’impegno nel campo della pubblicità (per imprese all’avanguardia, ad esempio l’IBM, o per brand alimentari, fra cui la John H. Wilkins Company), ricostruendo però allo stesso tempo episodi solo apparentemente marginali come il corto surrealista Time Piece – per il quale un Henson in salsa psichedelica ottenne perfino una nomination all’Oscar nel ’65 – o il documentario Youth 68 sui movimenti della contestazione; o ancora si soffermano sul progetto per un night-club multi-media e immersivo, il Cyclia, concepito alla fine degli anni sessanta ma mai effettivamente aperto agli avventori. Così la linea maestra – costituita dal Sam and Friends Show per la WCR-Tv (per il quale nacque l’originaria incarnazione di Kermit), seguito dalle ospitate in casa di Ed Sullivan e Jimmy Dean, dalla successiva riformulazione di sketch e personaggi per Sesame Street (la serie per ragazzi dal 1969 sulla rete National Educational Television) e infine dal glorioso Muppet Show – si rispecchia in una gamma ampia di moventi, insieme implicati con le urgenze economiche di una ditta fortunata (quella appunto fondata da Jim e da sua moglie Jane nel 1958) e con le ragioni poetiche di un operare creativo.
Pertanto, in apertura di percorso, fanno bella mostra di sé una serie di indici eloquenti, elementi di una formazione culturale che sembra di per se stessa preludere allo sviluppo della carriera di Henson: i libri della giovinezza – il Pogo di Walt Kelly, una versione illustrata di Alice nel paese delle meraviglie – ma anche la più antica televisione entrata in famiglia, suggerimenti tutti di dimensioni meticce e pervasive, rivolte a una lenta, quotidiana erosione dei confini della realtà. Simultaneamente il capitolo che indugia sui suoi celeberrimi pupazzi si sofferma in particolare sulle meraviglie messe a punto dal regista e dalla sua brigata di collaboratori nell’animare quelle creature gentili, magnificando cioè trovate tese a sfidare il limite dell’illusione negli occhi meravigliati dello spettatore. Si può perciò assistere – con la stessa gioia suscitata da una rara trouvaille di archeologia cinematografica – alla famosa ‘biciclettata’ di Kermit, approntata per la prima pellicola dei Muppet con il ricorso a una tecnica complessa di radiocomandi, riprese multiple e manipolazioni da vecchia scuola; ma soprattutto ci si imbatte in una Miss Piggy, caparbia e irresistibile, avvolta nei pizzi di un abito da sposa, aureolata dagli ephemera legati alla sua allure di star intramontabile (i calendari, il volume della sua Guide to Life): ed è impossibile non ricordarla nel numero acquatico interpretato per The Great Muppet Caper del 1981, altro brano studiato da Henson d’après Esther Williams al solo fine di convincere i fan appassionati di potere incontrare davvero un giorno la maialina bigger than life, in qualche locale elegante di Manhattan.