Occasioni come «Cinema ritrovato» dimostrano che la storia del cinema italiano è tutta da riscrivere, appesantita com’è da pregiudizi estetici e ideologici che premiano l’Arte, l’Impegno, il Realismo e la Letteratura, e snobbano i prodotti della cultura popolare, come i film con forzuti, amazzoni e principesse veneziane erculee, come Astrea.

In un geniale programma di frammenti curato da Andrea Meneghelli, troviamo una Francesca Bertini dei primissimi anni (1913, prima di Assunta Spina) fresca, spontanea e luminosa, che fuma con impaccio ma con l’aria della donna vissuta in Idolo infranto diretto da Ghione, tra ambienti di un’eleganza misurata, in un melodramma senza tende strappate. Da notare che il suo personaggio si chiama Francesca e quello interpretato da Alberto Collo come lui, proponendo l’identità dell’attore con il personaggio, a costruire il divismo, laddove nel cinema americano di quegli anni i credits non riportano i nomi degli attori, si dice perché non chiedessero un salario più alto, posticipando così la nascita dello star system.

Importante anche il ritrovamento di uno dei pochi film sopravvissuti con Diana Karenne, una sofisticata diva dalla recitazione moderna, che si cimenta nel doppio ruolo di una vecchia istitutrice e di un’amante appassionata, indossando in questo caso abiti di un’eleganza raffinata (Fortuny???) che competono con le famose toilettes sfarzose delle altre dive del tempo. Miracolosamente ritrovato in Brasile Fra Diavolo di Roberto Roberti, il padre di Sergio Leone, una pellicola molto spettacolare, con masse di figuranti in divisa militare, il bandito gentiluomo interpretato da un improbabile Gustavo Serena che si arrampica e salta come un Douglas Fairbanks con la lombalgia, ma che si trasforma col trucco e un colpo di mano ideologico degno di nota in una sorta di Garibaldi che libera la sua terra dall’occupazione francese e la consegna al re delle Due Sicilie. Uso del paesaggio, delle location e della scenografia davvero eccellente, ritmo così cosi.

Luciano Albertini e Mario Guaita-Ausonia sono tra i più popolari «uomini forti», muscolosi e atletici artisti circensi che si esibiscono in spettacolari stunts in campo lungo o in piano sequenza per mostrare che non c’è trucco non c’è inganno. La cintura delle amazzoni, scritto dalla compagna sceneggiatrice di Guaita, Renée Deliot, ha comunque una buona tenuta del racconto e non è un semplice intreccio per funambolici voli da uno sperone roccioso o tra i tetti delle case. Fa anche un accenno al femminismo, ma manda a casa le amazzoni che perdono la partita di calcio con i maschi, consolandole con l’abbraccio dei loro sfidanti – una sorridente ma stantia graffiata ideologica. La grande sorpresa è stata vedere un autoironico Girardengo, il mitico ciclista cantato da De Gregori, in Sansone e la ladra di atleti, in cui Albertini salva gli atleti olimpici italiani dal rapimento.

Nina la poliziotta e Il passato che torna mantengono ritmi narrativi più vivaci di quel che di solito associamo al muto italiano, e inquadrature ravvicinate che non si peritano più di sottolineare lo sfarzo degli ambienti. Il non identificato La vendetta del pugnale è con tutta probabilità, secondo chi scrive, un film americano, come si deduce dal labiale e da inquadrature, montaggio e scenografie non certo italiche, ma traggono in inganno didascalie in italiano e una sequenza con dei militari che indossano la divisa del nostro esercito. Si può supporre che si tratti di un prodotto minore americano importato che, con furbesca creatività, viene spacciato per nazionale, con l’aggiunta di qualche immagine. Non si tratta di una pratica inconsueta in un momento in cui la distribuzione internazionale era precaria e impresari come il napoletano Gustavo Lombardo (che aveva distribuito Cabiria in America) poteva giovarsi del fitto import-export con la comunità emigrata in America. Non a caso il film reca il logo di una compagnia «Transamericana». In effetti rimane ancora tanto lavoro da fare, indagando tra frammenti che magari non raccontano una storia per intero, ma ci restituiscono la vera Storia del nostro cinema.

Una storia che ritorna è quella proposta dall’ambientazione afroamericana di Claudine di John Berry (regista in lista nera che ha lavorato anche in Italia) una scoperta davvero speciale in questa strana edizione carbonara ma avveduta di Cinema Ritrovato. Claudine (Diahann Carroll) è una giovane di colore che ha sei figli da due mariti diversi e inganna i servizi sociali per mantenerli con un lavoro in nero, ma è consapevole di rientrare in uno stereotipo fin troppo noto. Il suo compagno, Roop (James Earl Jones), fa il paio: è uno di quei maschi di colore che ha abbandonato mogli e figli e si gode la sua auto sportiva e fa la corte alle belle ragazze. Con una colonna sonora cantata da Gladys Knight and the Pips, il film diventa una sorta di musical anni settanta con colori vivaci e una recitazione spigliata, ma affronta senza didascalismo alla Spike Lee il contrasto tra il figlio Charles, che si arruola nei movimenti dei diritti civili e si fa vasectomizzare e la sorellina minorenne che resta incinta dell’ amico che ha cambiato il nome in Abdullah, l’immaturità di Roop, l’ottusità dei servizi sociali, e l’impotenza di una comunità cui non si offre speranza alcuna.

Anche Ginza Nijuyoncho è un musical e non solo pone Kawashima tra Ozu e Imamura, come propone il titolo della retrospettiva a lui dedicata, ma tra Nouvelle Vague e film noir, in una sorta di À bout de souffle alla giapponese, che zooma continuamente tra un dettagliato quadro storico-geografico-antropologico di Ginza e le vite dei personaggi: l’idealista Coney che vorrebbe sradicare la droga dal quartiere, la bella moglie del criminale che controlla il traffico, il quale muore in un duello sui tetti, tra insegne luminose come in un film di gangster degli anni Trenta – un King Kong che si lascia uccidere come il Belmondo di cui sopra.
E a gran voce chiediamo una retrospettiva completa di questo autore.