Lipsia. In un’Europa sempre più segnata e frammentata da istanze nazionalistiche che fanno scivolare l’asse politico a destra, i paesi dell’ex-Yugoslavia si ritrovano ancora di più con i nervi scoperti e ferite non rimarginate. È l’impressione che si ricava da diversi film dei paesi balcanici presentati alla 61° edizione di Dok Leipzig, prestigioso e longevo festival internazionale del film documentario e dell’animazione, inaugurato lunedì scorso e che si conclude stasera. C’è una nuova generazione di registi che s’interroga sul passato e sulla società odierna da Zagabria a Belgrado. Quasi sempre la storia politica della precedente federazione guidata da Tito, frantumata traumaticamente dalle guerre intestine di secessione o indipendenza (a seconda del punto di vista) a partire dal 1991, s’intreccia con vicissitudini locali e familiari difficili e dolorose. Che si tratti di ritrovare le proprie radici nella casa natale o nel ricordo del nonno, oppure di subire nuove discriminazioni a causa di un nome o di una provenienza non appartenente alla tradizione della maggioranza, si evidenziano i sintomi di paesi non del tutto pacificati. Nel rinvigorimento di sentimenti nazionalisti che portano a governi a democrazia ridotta, quando non intrisi di aspetti fascisti nemmeno tanto nascosti, le ferite di guerra si riaprono anche fra i giovani che non l’hanno vissuta.

Ad alto potenziale drammatico e drammaturgico, Srbenka di Nebojša Slijepčević pone la questione delle sofferenze di una dodicenne croata con origini serbe. Il disagio inespresso della ragazza vittima di bullismo oggi si sovrappone alla tragedia di una coetanea uccisa nel 1991 e rappresentata a teatro nell’opera di Oliver Frljić. Le riprese seguono tutti i momenti preparatori, di prove, discussioni, dubbi, contrasti e determinazioni nel mettere in scena il fatto vero, ma circondato da imbarazzo e ostilità. La minacciosa contestazione nazionalista all’ingresso del teatro in occasione della prima non è che la punta dell’iceberg. L’opera teatrale e il film che l’amplifica pongono domande ancora oggi scomode: perché gli assassini non sono mai stati condannati? in quanti modi il delitto è stato oggetto di strumentalizzazioni politiche? Chi osteggia l’opera contrattacca in nome dei tanti bambini croati di cui nessuno ha scritto. Il filmmaker Slijepčević, sensibile alla condizione della minoranza serba in Croazia anche per esperienza personale, chiarisce: “Un conto è la cittadinanza, un’altra è la nazionalità. Diversi cittadini croati hanno nazionalità serba come Nikola Tesla, ma ora non c’è la libertà di vivere tranquillamente la propria nazionalità. Per altro molti provengono da famiglie serbo-croate, quindi con nazionalità miste”.

La cornice di questa e altre riflessioni di cineasti balcanici è stato l’incontro di mercoledì mattina Post-Yugoslavia, new nationalisms? Coincidenza vuole che anche il produttore di Days of madness abbia lo stesso nome anglofono del regista teatrale menzionato, ma c’è un motivo. “Il nome può pesare -spiega Oliver Sertić, il cui fratello si chiama Philip- negli anni ’70 quando siamo nati la nazionalità non pesava come oggi”, ciononostante i genitori avevano pensato bene di dar loro nomi che non rientrano nelle linee di appartenenza tradizionali. Non si sa mai e i fatti susseguiti confermano. Diretto da Damian Nenadić, coproduzione croato-slovena, Days of madness segue da vicino il disagio mentale, il percorso imbottito di psicofarmaci e finalmente l’esito positivo faticosamente raggiunto di Maja e Mladen. Due storie di disadattati diversi, autoripresi in forma di videodiario, accomunati però dal senso di perdita di appartenenza e di ricerca di sé attraversando confini incerti. La prima, borderline e transgender, fra punk arrabbiato e ebete sovrappeso con denti da rifare, se la prende sia con gli psichiatri che le prescrivono Prazine e Normabel, sia con la madre morta e il senso di colpa che si porta dietro. Il secondo è reduce della guerra yugoslava con depressione acuta, conflittualmente condizionato da dubbi religiosi e soprattutto dalle risposte indiscutibili del prete indicatogli dai suoi genitori.

Smarrimento e ridefinizione di nuova appartenenza sono anche il tema della montenegrina Bojana Radulović con il suo Separation, vivid dreams. La testa letteralmente immersa nella casa delle origini, ovvero di una sua buona copia in scala ridotta portata in testa, l’autrice torna a Podgorica dopo 17 anni nella dimora segnata dalla brutale transizione della guerra civile. Foto di chi non c’è più, muri crepati, pochi mobili rustici polverosi, oltre ai ricordi fanno emergere l’immobilismo fra passato e futuro, fra un’angusta realtà divisa per punti cardinali come il territorio balcanico e il tentativo di afferrare un non scontato sogno di cambiamento.