«Quanto succede nel Libano è una congiura imperialista e sionista che vuole estendere l’influenza americana su tutto il mondo arabo. Nessun popolo come quello palestinese si è opposto con altrettanta fermezza e tanto sacrificio di sangue a questa congiura. Oggi il Libano è il cuore della nazione araba».
Così si è espresso il portavoce dell’Olp nel corso di un dibattito organizzato dalla «mostra del nuovo cinema», che si è conclusa a Pesaro mercoledì scorso, subito dopo la proiezione di alcuni documenti prodotti dalla resistenza palestinese.

Il dibattito ha concluso una giornata che Pesaro, dimostrandosi in ciò sensibile ai problemi politici più urgenti, ha voluto dedicare interamente alla guerra libanese a alle lotte del popolo di Palestina. Si è iniziata la settimana con la presentazione del film Il Libano nella tormenta, che documenta, attraverso un serrato alternarsi d’interviste, notizie e materiali d’archivio, l’inizio della guerra civile e il ruolo che in essa hanno svolto e svolgono, appena velati dall’alibi religioso, gli interessi della borghesia. Come il film dimostra, oggi in Libano la borghesia fascista e controrivoluzionaria, sfruttando le compiacenze e gli aiuti dell’imperialismo, e le divisioni del mondo arabo, si fa diretta complice del processo di liquidazione del popolo palestinese; un processo che ha una storia lunghissima e che è costellato di espropriazioni, torture, esili e massacri.

L’altro film in programma nella mattinata, il francese L’olivo, tenta di ricostruire questo processo, ricorrendo a testimonianze inedite e dirette. Girato da un collettivo dì cineasti che si sono mantenuti a stretto contatto con gli esponenti dell’Olp, il documentario francese rievoca la vita e le lotte del popolo palestinese attraverso le narrazioni di vecchi profughi e vecchi combattenti. (Pregevole ci sembra lo sforzo del film di farci comprendere come tutto un popolo riesca a riconoscersi unito pur nella estrema frammentazione, pur costretto a una vita miserabile nei campi profughi o nei villaggi-ghetto riservatigli dalle violenze e dalle alchimie dell’imperialismo).
Il ricordo della terra di Palestina, trasmesso ininterrottamente dalle vecchie alle giovani generazioni, diventa patrimonio di identità comune e alimenta la lotta e la resistenza contro l’antica e la nuova oppressione.

Ma se L’olivo e Il Libano nella tormenta appaiono ancora tagliati per un gusto «occidentale», e finalizzati in qualche modo a una diffusione «televisiva» – con tutto quello che, anche a livello di linguaggio, una tale scelta comporta -, un discorso completamente a parte ci sembra meritino i documentari presentati dall’Olp. Di essi colpiscono soprattutto la sobrietà e l’incisività: sono brevi spunti, brevi quadri di vita in comune, ricordi e eroismi raccontati con commozione ma senza vittimismo. L’ultimo e il più recente di questi documentari, La chiave, realizzato nonostante enormi e comprensibili difficoltà dalla cinematografia palestinese dopo due anni di forzata inattività, può essere considerato un prodotto emblematico del tipo di cinema che l’Olp intende diffondere. Il film si apre sulla semplice descrizione della vita dì una famiglia palestinese: i vecchi guardano lontano, dalla finestra; una bambina legge alla madre una fiaba che dice: «L’uccello ha una casa, il coniglio ha una casa, tutti gli animali hanno una casa. I palestinesi hanno perduto la loro casa: – essi hanno solo la chiave, la chiave che è il simbolo del ritorno».

Da queste scene iniziali si passa poi alle immagini della Palestina occupata, ma che tuttavia fiorisce in una bellissima primavera, e di qui alla descrizione delle contraddizioni del movimento sionista, alla rappresentazione del suo militarismo aggressivo e poi ancora, per concludere, all’appello alla lotta, alla richiesta di appoggio internazionale alla resistenza palestinese che Abu Ammar legge da un capitolo del discorso pronuncialo alle Nazioni unite.

La chiave ci presenta dunque materiali eterogenei esposti con estrema semplicità, e qualche critico – progressista, ma nonostante tutto eurocentrico – non ha mancato di avanzare l’ipotesi che questa eterogeneità, questa abbondanza di particolari, fosse, in fin dei conti, un limite di linguaggio. Ma noi dobbiamo comprendere e analizzare i documentari dell’Olp da un punto di vista diverso, non trattandoli, cioè, come comuni film militanti. Innanzitutto dobbiamo valutare il cinema palestinese come un organo d’informazione privilegiato, al quale solo è possibile documentare in modo «comprensibile» e efficace, tanto «la vita quotidiana che i momenti di lotta delle masse popolari», come si legge nel documento dei cineasti palestinesi. In secondo luogo dobbiamo intenderlo questo cinema alla luce dello sforzo che essi compiono, di elaborare non solo un mezzo d’informazione «nazionale», attraverso propri strumenti, propri uomini e proprio materiale, ma addirittura una «nuova estetica che sostituisca quella vecchia», ossia quella elaborata secondo modelli, per l’appunto occidentali, tradizionali, «coloniali». Il cammino verso questa nuova estetica è ancora lungo, ma siamo convinti che da esso, dall’espressione dì un popolo armato, siamo noi, occidentali e europei, a dover imparare – e non viceversa.

Un’ultima notazione: dedicando una giornata alla resistenza palestinese la mostra di Pesaro non ci ha offerto solo uno dei suoi momenti più qualificanti, ma ha anche ottenuto un notevole successo di pubblico e di partecipazione. La sala del «Teatro sperimentale» è stata sempre gremita, e si sono svolte in città altre concrete manifestazioni di appoggio alla lotta dell’Olp. Il tutto con buona pace di quei critici borghesi (vedi il Corriere del 22 settembre) che ancora si scandalizzano se il pubblico applaude quando Lenin, Allende o Arafat compaiono sullo schermo.

(28 settembre ’76)