In esplorazione tra festival online (Iranian Film Festival Zurich) e rassegne come forzieri preziosi (Berliner Festspiele) si incontrano le opere iraniane più recenti come quelle più datate e su ogni visione lo sguardo lirico di Kiarostami, che quest’anno avrebbe compiuto ottant’anni, è sempre lì, sulle tenebre personali di noi tutti. Il lirismo del maestro del cinema iraniano è un timbro giornalistico inevitabile. In questa occasione, tuttavia, cercheremo di evitarne degli altri come Dietro la censura, Oltre il velo o viceversa. In nome della città, della natura e non solo di Dio.

I paesaggi del cinema persiano non sono cartoline, ma esseri antropomorfi per cui anche la terra, arida e polverosa, de Il sapore della ciliegia (Kiarostami, 1997) vive mentre continua ad essere finzione. Il triplice gioco di sguardi tra spettatore, protagonista e regista, contribuisce a rendere la natura un personaggio che si muove come chi gli sta attorno. Non si prescinde dal viaggio, che sia in automobile, dentro un autobus on the road per testimoniare ad un processo (The Oath di Mohsen Tanabandeh, 2019) o a piedi in cerca della casa del nostro amico. Nel taxi di Panahi, che finirà per girare anche tra i ripiani di un frigorifero, o verso la propria identità, magari afghana, come in The Silhouettes di Afsaneh Salari (2020). In Zero Floor (Ebrahim Ebrahimian, 2019) un padre parte con il fratello da un villaggio periferico, che è solo evocato, verso la città, dal figlio in ospedale. I freddi ambienti burocratici sono un paesaggio, urbano, pronto ad interagire con il conflitto tra l’uomo e l’ex moglie, in un telaio di dialoghi ferrei e fluviali a cui questo cinema ci ha abituati.
La città può essere un luogo anche matrigno ed estraneo. L’ottantenne Firouzeh, protagonista del documentario Beloved di Yaser Talebi (2019) vive isolata tra le montagne Alborz, senza nessun supporto tecnologico ma con un amore quasi filiale per le sue mucche. Un rapporto diretto, assoluto, e soprattutto ostinato anche verso le autorità che le ricordano quanto un’area protetta resti tale se non è troppo frequentata. Eppure Firouzeh, indomita, trascina lo spettatore tra le stagioni, i fasci di legna, mentre racconta la sua vita scandita dal lavoro e dal destino, cercando di mettersi continuamente in contatto con i figli che non le fanno mai visita.

La ricchezza geografica dell’Iran è la base di una delle sue fortune cinematografiche, anche quando il campo lunghissimo si restringe e la natura diventa complice e pericolosa al medesimo tempo. È il caso del viscerale cortometraggio AniMal- Heyvan (Baham Ark e Bahram Ark, 2017). Il protagonista per poter oltrepassare il confine, immerso nel bosco, si traveste da montone, ne studia le movenze guardando documentari, ne sviscera il corpo per farlo suo, cercando una immedesimazione totale che lo protegga nella sua fuga al di là del filo spinato. Sedici minuti di adesione morbosa alla natura con un finale beffardo. Il regista tedesco Daniel Kötter con Hashti Tehran (2016) propone un punto di vista solo apparentemente conflittuale tra l’elemento naturale e le metamorfosi urbane. La domanda sempre più attuale su dove inizi e finisca una città porge il fianco ad un discorso sullo spazio privato e pubblico nella società. Già il titolo fa riferimento allo spazio ottagonale della casa iraniana in cui confluiscono un ambiente intimo e uno semipubblico. Senza dialoghi, ma con voci off montate in un secondo momento, Kötter affianca i palazzoni nuovi del deserto ai quartieri storici minacciati e alla natura anarchica, suddividendo il documentario in quattro sezioni che sono anche aree geografiche. La montagna di Tochal (la catena dell’Alborz in cui si aggira Firouzeh) nel nord del Paese, il lago artificiale Chitgar nell’ovest con le costruzioni pronte, o quasi, per la media borghesia, Pardis Town all’est, ovvero il progetto di social housing voluto da Ahmadinejad, innestato su un territorio vuoto e desolato. Le sfumature tra pubblico e privato diventano più impalpabili quando Kötter giunge a sud, nel quartiere di Nafar Abad, dove il comune sta per demolire edifici per rendere più accessibile la viabilità verso un santuario. Gli abitanti lasciano divani e poltrone per strada, così da rendere il salone privato uno spazio pubblico dove incontrarsi. La stessa montagna dell’Alborz non è solo un luogo per sciare o fare escursioni separato dalla città, ne è l’appendice ricreativa ed è connessa alla città con una funicolare. Nel caso Firouzeh volesse lasciare le sue mucche per un giorno ed essere risucchiata dai tentacoli della civiltà.