Fare a pezzi il documentario. E quei pezzi ricomporli poi in una forma imprevista, tutta da inventare. Giocare con i generi, trasformare i corpi in personaggi e poi smascherarli, lasciar collidere il linguaggio con la realtà che muta perché possa emergere qualcosa di nuovo che forse è il reale. La finzione si fa sempre più spazio sugli schermi del 44° Cinéma du Réel di Parigi, si insinua entro le maglie del documentario fino a farlo esplodere, costringendolo a scoprire le carte, a raccontare il suo farsi, a spingere lo sguardo oltre il velo illusorio del «così vanno le cose, così devono andare».

Dal Brasile, Mato seco em chamas di Adirley Queirós Andrade e Joana Pimenta immerge la periferia della capitale in una notte perenne e polverosa dove una gang di amazzoni capeggiata da Joana Dark detta Chitara gestisce una raffineria clandestina di petrolio e fa affari con orde di centauri.

Il film è visivamente un western di favela con lande brulle solcate da motociclette e orizzonti tenuti sotto assedio dai droni della polizia. I corpi forti e seminudi delle donne fiammeggiano tra le trivelle e i barili, i muscoli guizzano unti da sudore e petrolio assumendo forme statuarie. La cornice mitica di tanto in tanto si apre e lascia spazio a una presa di parola delle protagoniste. Léa, criniera color pece, sigaretta alla bocca, fucile a tracolla e bracciale elettronico alla caviglia, sconta ai domiciliari la pena per traffico di droga ma è in galera che ha costruito la sua leggenda di amante prodigiosa.

Andreia era reclusa insieme a Léa e ora che è libera, oltre a fare la gasolineira, si candida alle elezioni per un partito che difende i diritti delle persone detenute e delle loro famiglie. In lei, la religione o la partecipazione politica sono strategie forse illusorie per tenersi fuori dal carcere. Ma il penitenziario incombe sia nella mente sia sul paesaggio. Il crimine è infatti un’opzione praticamente obbligata per chi vive ai margini, per chi soffre razzismo e sessismo, per chi paga il prezzo di una povertà creata ad arte dallo sfruttamento. La campagna elettorale entra nel vivo e Bolsonaro si prepara alla scalata sostenuto da militanti che inneggiano alla morte di Lula. La violenza appare una catena impossibile da spezzare ed è di fronte a un simile vicolo cieco che l’arte si assume l’onere di uno scarto. Le donne di Mato seco em chamas sono artificiali nella misura in cui attraverso l’artificio riescono a raccontare di sé e dei propri sogni trovando nel cinema lo strumento che dà forma al loro bisogno di resistere e contrastare la violenza che le umilia.

Il Brasile è un paese in cui la realtà supera la fantasia e solo l’assurdo è in grado di renderne conto. Un paese in cui anche chi crede di essere in libertà vive dentro a prigioni, come mostra con sarcasmo Urban solutions, cortometraggio firmato da un collettivo tedesco-brasiliano (Arne Hector, Vinícius Lopes, Luciana Mazeto, Minze Tummescheit). Sulle immagini di cancelli sbarrati, segnaletica minacciosa e sorveglianti intenti a osservare le riprese delle telecamere a circuito chiuso dei palazzi borghesi, si intrecciano due racconti in voce off: quello di un portinaio che riflette sul suo rapporto con i datori di lavoro diffidenti ma sempre pronti ad approfittare di lui e quello del pittore tedesco Johann Moritz Rugendas che a metà Ottocento posava il suo sguardo orientalista sul Brasile e scriveva Voyage pittoresque et historique au Brésil (1835). Tra ipocrisia e paure profonde, emerge il ritratto di una società ancora preda dei suoi fantasmi coloniali.

Il cinema è davvero l’arte di dar corpo ai fantasmi, di proporre allo sguardo gli spettri della storia: con repertori, documenti storici e immagini in 35 e 65 mm, il canadese Anyox di Ryan Ermacora e Jessica Johnson torna nel territorio colonizzato e sfruttato dove sorgeva l’ex città-fabbrica mineraria eponima oggi abbandonata. Negli anni Trenta gli scioperi dei minatori sottopagati e per lo più immigrati dall’Est Europa e dalla Russia furono soffocati nella violenza. Gli operai più politicizzati vennero rimpatriati a forza e i giornali dell’epoca rendono conto dell’uso, oggi scandaloso, del verbo «deportare».

Perché effettivamente Canada e Stati Uniti allora deportavano soggetti considerati troppo radicali o «asociali» verso paesi che qualche tempo dopo li avrebbero a propria volta sottoposti a repressioni, purghe e deportazioni. Una storia rievocata a suo modo anche dal notevole Navigators di Noah Teichner, un film costruito nell’arco di dieci anni di ricerche e montaggi resi possibili dall’Abominable, laboratorio cinematografico oggi in difficoltà economiche e in fase di trasloco dalla sede storica de La Courneuve (informazioni su https://www.l-abominable.org).

Il film racconta il viaggio a bordo del Buford – o «arca sovietica» – compiuto nel 1919 dai 249 «Reds» tra cui Emma Goldman e Alexandre Berkman costretti dagli USA all’esilio forzato in Russia. Un viaggio epico a bordo di una nave che, nel film, traghetta la realtà verso la finzione e viceversa. Nel 1924, infatti, lo stesso Buford sarà utilizzato da Buster Keaton per ambientarci Il navigatore e così, mentre alcune pagine dei libri di Goldman e Berkman restituiscono il racconto di quella traversata terribile, il montaggio pone in continuità documenti e sequenze cinematografiche perché la storia si presenta sempre due volte ma non sempre è possibile distinguere la tragedia dalla farsa.