Se il cinema africano è sempre, forse più di ogni altro, cinema politico, il cinema documentario africano è avamposto, prima linea, fronte sul quale il continente seguita a combattere la lunga battaglia contro un sopruso centenario, strutturale, perpetuo.

Nella Parigi capitale neocoloniale bianca, il festival Cinema du Réel dedica un ampio focus al cinema documentario africano con un articolato programma che combina, in un disegno progettuale quasi enciclopedico, la tassonomia delle forme e dei temi, la geografia degli autori e delle storie, l’incontro con e tra gli autori, l’analisi e il racconto dei loro metodi di produzione.

Le sezioni
Nelle tre sezioni principali del programma si ritrovano rappresentati il paesaggio contemporaneo visto dall’Europa («Le documentarie africain vu d’ici»), un canone di fondatori o per meglio dire di autori di riferimento in un passato non ancora remoto («Dix figure tutélaires») e infine un discorso costruito dalle sei voci di programmatori di festival e altre figure di spicco del cinema africano, espresso attraverso dodici film scelti per delineare un ritratto critico del documentario africano del nostro tempo («Carte blanche aux programmateurs africans»).

In coda, inaccessibile per chi segue dall’estero il festival, un palinsesto d’incontri e attività collaterali tra le quali val la pena citare la serie di cinque casi di studio curati da Hicham Falah, «Produire en Afrique»: analisi, testimonianze, racconti e ricostruzioni che resteranno come originale sforzo per illuminare le condizioni in cui il cinema documentario africano viene materialmente prodotto.

Jean Marie Teno
Nel canone degli autori della «prima generazione» i francofoni sono quasi una minoranza. Prezioso il recupero del film di consacrazione del camerunense Jean Marie Teno. Afrique, je te plumerai (1992) si sviluppa lungo le due direttrici del discorso che caratterizzano la grande maggioranza dei documentari africani, oggi come ieri: l’analisi e la ricostruzione del passato coloniale; la testimonianza, il resoconto, la riflessione sul presente tumultuoso, incerto e violento, tra indipendenza e neocolonialismo. La voce del regista dà forma al film che monta insieme – con una certa brillante efficacia – materiali disparati, tessendoli in una forma anch’essa «bipolare», un po’ invenzione selvaggia e urgente, un po’ adeguamento e affiancamento alle forme del cinema europeo.

Altro elemento ricorrente, la scelta di un registro poetico per affrontare i più crudi e impellenti problemi della vita materiale, appare magistralmente declinato dalla regista egiziana Ateyyat El Abnoudy nel suo Seas of thirst (1981), diario lirico sulla lotta contro la siccità di una comunità di pescatori egiziani.
Unico titolo recente tra quelli dei «numi tutelari», Before the dying of the light (2020), del marocchino Ali Essafi, è forse il più pirotecnico e corale. Gli anni Settanta in Marocco sono ripercorsi e ricostruiti in un mosaico di fotografie, interviste, locandine, archivi d’epoca che riproducono la vitalistica effervescenza dell’arte e della militanza in anni politicamente cruciali.

I contemporanei
Nella sezione dedicata ai registi del presente spiccano il giovane senegalese Alassane Diago e la marocchina Dalila Ennadre, entrambi presenti in cartellone con due diversi film. Del primo è stato scelto il dittico Les larmes de l’emigration (2009) e Rencontrer mon père (2017). Il regista, noto per la sua capacità di costruire dalla semplice osservazione dei suoi protagonisti e dal confronto diretto con loro una speciale e intima densità, nel primo film raccoglie il dolore e l’ostinata rassegnazione della madre, sposa abbandonata dal marito poco dopo la nascita del secondo figlio, sola da più di vent’anni senza aver più ricevuto notizie dal compagno partito per un lungo viaggio di migrazione interna in cerca di migliori condizioni di vita; e registra il destino in divenire della sorella, anche lei come sua madre rimasta sola ad aspettare un marito lontano, anche lei come la madre forse diretta verso un futuro di rassegnazione e disincanto.

Dieci anni più tardi la distanza con il padre perduto viene annullata da un altro viaggio; il regista si presenta presso la sua nuova casa, dove l’uomo, ormai senescente, ha costruito una seconda famiglia, e si immerge insieme a lui in lunghi, intensi, spietati confronti alla fine dei quali ottenere più di tutto una reciproca riconciliazione. Seguendo una pratica di ripresa quasi ascetica, Alassane Diago riempie i suoi film di lunghe durate, di piani fissi che trasformano l’insistenza in ascolto, la tenacia e la determinazione in sguardo contemplativo; e usa lo spazio tra il sé-obiettivo e l’interlocutore come luogo di una comprensione profonda, di una pietà profondamente umana, di un’attenta e delicata cura dell’altro.

L’omaggio
A Dalila Ennadre infine il festival parigino dedica un omaggio dopo la sua prematura scomparsa nella primavera di due anni fa. La regista, marocchina di nascita, formatasi in Francia e vissuta in altri paesi ancora tra l’Europa e l’America Latina, viene ricordata con il suo primo successo internazionale – El batalett – Femmes de la médina, 2000 – e il suo ultimo film completato prima della morte, Jean Genet, notre-père-des-fleures, 2021.

Nel primo, l’osservazione quotidiana della vita d’un quartiere storico di Casablanca si trasforma subito in una sagace ritratto dall’interno della comunità di donne che l’abita. La regista ottiene la fiducia e la confidenza delle sue protagoniste; ma se il film non si contenta di essere un contenitore di testimonianze è grazie a una regia lucida e tesa che mette in contesto le donne protagoniste ritraendole intente nelle faccende quotidiane e negli altri ambiti della vita ordinaria riuscendo a tessere, in un gioco di solidale complicità con loro, un velo d’ironia che si sovrappone al racconto ufficiale del film trasformandolo nel profondo. Inatteso e inconsueto, il film dedicato a Jean Genet si centra intorno alla sua tomba in un piccolo camposanto sul mare in Marocco. Genet e il luogo dove riposano le sue spoglie mortali sono quasi un pretesto per raccontare un paese autentico e sconosciuto. Il recinto del piccolo cimitero cattolico inizia presto a mostrare il suo ruolo di funzione narrativa: il dentro (la placida e ripetitiva vita della famiglia del guardiano, i testimoni che vengono a visitare la tomba del poeta, le voci degli operai, protagonisti casuali che guardano al mare sotto di loro solo come strada possibile per cambiare vita altrove) e il fuori (gli schiamazzi e le intemperanze dei bambini che giocano subito oltre il cancello e poi, poco distante, un gigantesco complesso carcerario dal quale provengono voci e storie in rima con la vita del poeta defunto) si scambiano di posto, sovvertendo le legittime aspettative dello spettatore.

L’ultimo appunto è per uno dei due film scelti dal programmatore e filmmaker mozambicano Pedro Pimenta, A memory in three acts, un saggio stilisticamente e concettualmente perfetto che lavora sulla memoria del recente passato coloniale del Mozambico, in parte già cancellata, eppure necessaria per un futuro di libertà e di pace.