Il Cinéma du Réel è un festival di cinema oramai storico, la sua origine data 1978 e i fondatori rispondono ai nomi di Jean-Michel Arnold e Jean Rouch.

Di base a Parigi (Centre Pompidou), sempre dedicato al film documentario nelle sue molteplici variazioni, nell’edizione di quest’anno (18-27 marzo) il festival presenta come suo solito programmi senza dubbio interessanti, per una ragione o l’altra – info: www.cinemadureel.org.

Ora, fra questi, merita sicuramente un approfondimento – diciamo: per la ricchezza e il rigore della proposta; per le domande che potenzialmente pone – il programma a cura di Federico Rossin, italiano, programmatore e storico del cinema da anni in Francia.

Dal titolo Rejouer – Reconstitution, représentation, réinvention dans le cinéma documentaire, il programma in questione offre l’occasione di (ri)scoprire in modo sorprendentemente sistematico come certi film corti e lunghi, filmmaker e certe cinematografie si siano confrontati con alcune delle più significative forme di memoria sociale.

Una lettura del programma

I film del programma si articolano in otto voci che sono otto fondamentali declinazioni attraverso cui l’azione di una memoria sociale antropologicamente intesa si può potenzialmente sviluppare: c’è la rievocazione della vita e della morte con l’episodio Storia di Caterina de L’amore in città (C. Zavattini, F. Maselli, 1953) e Reconstituirea (V. Calotescu, 1960); c’è la confessione e la sua rielaborazione con Landscape Suicide (J. Benning, 1986); c’è la rievocazione della storia con The Silent Village (H. Jennings, 1943) e Mueda, memória e massacre (R. Guerra, 1979); la ricostruzione come decostruzione con il film di E. Petri su Pinelli, Auditions for a Revolution (I. Botea, 2006) e The Eternal Frame (Collettivo Anti-farm, Collettivo T. R. Uthco, 1976); c’è il tema del trauma con No Lies (M. Block, 1974), Losing: A Conversations with the Parents (M. Rosler, 1977), Locke’s Way (D. Cumming, 2003) e Daughter Rite (M. Citron, 1980); c’è il rapporto con l’archivio con Far from Poland (J. Godmilow, 1983); c’è la reinvenzione del passato con The Song of the Shirt (S. Clayton, J. Curling, 1979); c’è la relazione tra traduzione e dislocazione con Surname Viet Given Name Nam (Trinh T. Minh-ha, 1989).

Ora, la serie di questi film sembra quantomeno offrire una indicazione e una annotazione.

L’indicazione è legata alla percezione della memoria al cinema. Tanto a Hollywood quanto nella maggioranza della produzione cosiddetta d’autore spesso non si va più lontano della solita stereotipata idea di memoria come dispositivo esclusivamente narratologico, da una limitata interpretazione delle teorie del filosofo francese Paul Ricoeur alla manualistica da quattro soldi.

Certo, è chiaro, la memoria è anche su questo piano, e però non è solo questo.

Come anticipato, quello di Rossin è un programma i cui film, presi singolarmente e al di là delle categorie di riferimento, possono valere come potenziali e suggestive risposte audiovisive alle forme di memoria specifiche menzionate, mentre insieme, come palinsesto, danno la possibilità di verificare a trecentosessanta gradi l’azione e l’efficacia di una idea di memoria attraverso cui viene meno qualsiasi equazione tra narrazione e illustrazione.

In merito all’annotazione si può dire invece come nel programma siano rilevabili tutti e tre i quadri sociali della memoria fondamentali della vita umana. Qui citiamo gli esempi che meglio incontrano i criteri di definizione dei singoli quadri: No Lies, per quello individuale; Losing: A Conversation with the Parents, per quello familiare; Mueda, memória e massacre, per quello nazionale.

Tre modi di vedere il ricordo

Nello stile del cinéma-vérité il corto No Lies (film a colori) ci presenta una situazione limite.

Ci sono un cameraman e una donna, siamo a casa della donna, c’è una conversazione tra i due, ma vediamo solo lei nel film – intuiamo un possibile rapporto di amicizia e una certa casualità dell’occasione. Poi, qualcosa accade: lei menziona di essere stata stuprata pochi giorni prima, l’intervistatore però non le crede, il dialogo tra i due cambia tono, e il film ci mostrerà progressivamente come la donna dovrà far cadere tutte le difese retoriche del proprio discorso per far accettare quanto accaduto al suo interlocutore (alla fine, scoppierà a piangere).

Questo film di Mitchell Block è considerato un classico sul tema – anche inserito dalla Library of Congress degli USA nel suo National Film Registry – e certamente in relazione alla memoria come trauma si rivela una visione che offre molte questioni aperte. Qui, vale la pena sottolineare come i meccanismi di un cinema diretto possano arrivare tanto a toccare una verità emotiva quanto a rischiare di configurare una nuova situazione di aggressione.

Come dire: la linea di confine è molto, molto sottile.

Nel corto Losing: A Conversation with the Parents (film a colori) ci si trova invece di fronte a una sorta di rovescio dello stesso tema: il trauma della morte e l’elaborazione di una assenza di qualcuno/a parte della propria comunità – appunto, la famiglia.

In una messa in scena che fa il verso alla più classica delle interviste domestiche Martha Rosler mette di fronte alla camera una coppia di attori nel ruolo di genitori alle prese con il ricordo della propria figlia, i suoi problemi di anoressia, la sua morte.

Nel film è soprattutto la madre a parlare. Il discorso tocca diversi temi, spostandosi da un piano personale a uno più generale e indicando come certa pressione sociale possa influire nella vita privata. Qui la parola è predominante, non c’è una dimensione performativa di incontro e scontro come in No Lies, ma le scelte visive rimangono determinanti. Su tutto, l’album di fotografie di famiglia accanto alla coppia, sul tavolo di fronte a loro. Bastano dei brevi inserti di fotografie della figlia a far da contrappunto alle voci per restituire l’efficacia del quadro.

Il lungo Mueda, memória e massacre (film in bianco e nero) propone, infine, una ultima via al tema del ricordo attraverso i quadri sociali.

Il film di Ruy Guerra – impressionante, tra il cinema di un Peter Watkins e quello di un Jean Rouch – ha come oggetto la rievocazione di un massacro: quello dell’esercito portoghese a Mueda, Mozambico, il 16 giugno 1960, quando furono uccisi 600 abitanti su ordine del governatore locale. Si tratta di una rievocazione compiuta ogni anno dalla gente del posto da quando il Paese è diventato indipendente.

Il film mostra come sia la stessa gente del posto a interpretare tutti i ruoli della Storia e questo, insieme alle radici culturali di Guerra e al legame tra episodio rievocato e movimento di liberazione nazionale successivo rende il film non solo un’opera rappresentativa della memoria della decolonizzazione ma anche, alla fine, la sopravvivenza di un «fatto sociale totale».