Il XVII Congresso del Partito socialista italiano, quello della scissione che diede vita al Pcd’I, fu documentato da un breve film. La tumultuosa assise socialista fu per molti versi rimessa in scena da alcuni dei suoi protagonisti, che si prestarono a mimare i propri interventi per la macchina da presa fuori dal Teatro Goldoni, anche perché non vi erano i mezzi per riprese prolungate all’interno di un luogo buio com’era la sala livornese che, infatti, vediamo solo per pochi istanti gremita di delegati. Si notava una differenza anagrafica e d’aspetto: i più autorevoli dirigenti socialisti tutti âgée e con la barba o i baffi (D’Aragona, Lazzari, Modigliani, Turati), e i leader comunisti, come Bordiga e Terracini invece giovani e sbarbati, con l’eccezione di un Bombacci che coltivava un aspetto mefistofelico con baffoni e barba a punta.

Questo primo appuntamento con l’«arte nuova», con il cinema, testimoniava di un interesse, di un’attenzione precoce per il cinema da parte della sinistra italiana. D’altronde, proprio in quegli anni si affermò come uno dei principali strumenti di propaganda del «primo paese socialista», con i film di autori come Ėjzenštejn o Vertov, e contribuì non poco alle fortune del comunismo nel mondo.
I comunisti italiani riapparvero sullo schermo nel 1943, sia pure in modo cifrato, nel personaggio dello «spagnolo» in Ossessione di Luchino Visconti. Da allora, quell’incontro tra il Pci e il cinema generò un rapporto profondo, talvolta contrastato ma tutto sommato fecondo.

Dal documentario alla finzione. In primo luogo, i comunisti furono personaggi del cinema italiano del secondo dopoguerra che, nella sua ricchezza di voci e di generi, ha avuto anche la caratteristica di raccontare il paese e quindi anche i comunisti che furono una parte importante della società italiana e non un’entità separata come vuole la damnatio memoriae antipartitica degli ultimi decenni. È impossibile anche solo provare a nominarli tutti i film in cui si vedono in scena i comunisti: sono tanti e diversissimi fra loro. Da Una vita difficile fino a Palombella rossa, uscito nelle sale alle soglie della Bolognina.

La linea del Pci rispetto alla settima arte si articolò, invece, in due modi. Da un lato il Partito si attrezzò per una propria produzione di film a carattere documentario che dovevano, in particolare fino alla riforma della televisione del 1975, cercare di controbattere la comunicazione governativa dell’Istituto Luce, della Settimana Incom e, poi, dopo il 1954, appunto, della Rai. E questo cinema a cui lavorarono nel corso dei decenni moltissimi cineasti di valore, fu fino alla fine degli anni Cinquanta fortemente contrastata dalla censura che si abbatté violenta su queste produzioni fino a bloccare quasi del tutto la circolazione dei film di comunisti o di «compagni di strada». Anche Monicelli nel 1955 fu costretto a ridoppiare una sequenza di Totò e Carolina in cui un gruppo di comunisti cantava Bandiera rossa, e sostituirla con la più innocua Di qua e di là dal Piave: i comunisti sugli schermi non si dovevano vedere per «turbativa all’ordine pubblico».

I film-documentari del Pci, proiettati nelle Sezioni, nelle iniziative delle federazioni e della Cgil, nella rete dei circoli del cinema, ecc. contribuirono a mostrare un volto diverso dell’Italia, quello delle promesse non mantenute del «miracolo economico», della povertà, delle ingiustizie, delle lotte operaie e contadine, che rimanevano fuori dai mass media controllati dalla Democrazia cristiana. Il Partito comunista, a un certo punto, pensò anche di realizzare un vero e proprio contro-telegiornale, Terzo Canale, come poi si sarebbe chiamata la rete di fatto a loro concessa negli anni Ottanta.

Per quanto riguarda il cinema di finzione il Pci adottò una linea diversa. Togliatti fu molto lucido su questo punto. A Carlo Lizzani e Giuliani G De Negri, che avevano dato vita alla Cooperativa Spettatori-Produttori cinematografici (che produsse Achtung! Banditi! e Cronache di poveri amanti), che gli chiedevano un maggiore impegno del Partito il segretario comunista spiegò che i cineasti comunisti dovevano portare le loro idee all’interno del cinema tout court e non dare vita a una cinematografia del Pci, che avrebbe avuto una circolazione più limitata, anche perché i mezzi economici sarebbero stati esigui. Ciò «avrebbe indebolito la capacità di tanti cineasti anche lontani dal Pci ma ’obiettivamente’ anticonformisti, di diffondere i loro messaggi tra le masse, e orientarle a poco a poco verso gli ideali socialisti». Insomma, bisognava puntare sui «contenuti», sulle campagne contro la censura e sulle leggi per la difesa del cinema italiano.

Lucidità di Togliatti. Pure se allora non ci fu piena consapevolezza di questo fatto, anche perché il cinema fu sempre considerato nel Partito un’«arte minore» rispetto alla letteratura o al teatro, e anche se la maggior parte dei registi non appartenevano al Pci, la sinistra riuscì a conseguire un’egemonia in senso gramsciano nel cinema «d’autore» italiano. Un cinema che, tra l’altro, fu il fenomeno culturale più rilevante e cosmopolita della storia dell’Italia repubblicana, probabilmente il contributo italiano più importante alla cultura mondiale della seconda metà del ’900. E che fu, insieme alla televisione, l’agente più influente nella costruzione dell’identità e dell’immaginario degli italiani. Insomma, la scelta di Togliatti di non dare vita a un cinema «targato Pci» ma di puntare su un’egemonia nel cinema mainstream sembrò avere successo. E questo nonostante il fatto che molti di quei film non piacquero ai critici e ai dirigenti del Partito perché magari troppo sperimentali, «d’avanguardia», o critici verso il Pci stesso o perché i temi politici furono coniugati con il cinema di genere, come, per esempio, la commedia.

Al di là di un’antica e persistente vulgata, che vuole un cinema tutto comunista, i cineasti iscritti al Pci o ad esso legati non furono in realtà poi tanti: Visconti, Maselli, Taviani, Pontecorvo, Montaldo, Lizzani, Gregoretti, ecc. E anche questi si espressero sempre liberamente non furono un megafono di parole d’ordine di Botteghe oscure. Fino a che il Pci fu all’opposizione, in particolare, il cinema d’autore condivise la volontà di mettere in luce i problemi della società italiana e di cambiarla. Alla fine degli anni Settanta, la politica di solidarietà nazionale, il terrorismo di sinistra, e, poi, la lunga crisi strategica del Partito, incrinarono ma non fecero venire meno questo legame.