Solo pochi mesi fa era al Cinema America, la vecchia sala romana, occupata da un gruppo di ragazzi a parlare con loro della comune passione, il cinema, e della politica e della vita. Francesco Rosi è morto ieri a Roma, nella sua casa di via Gregoriana, e con lui se ne va un altro dei registi che incarnavano il mito del cinema italiano, anche agli occhi del mondo, quella manciata di nomi, Fellini, Visconti, Rosi, che ogni cineasta o cinefilo di qualsiasi paese cita immediatamente se gli si chiede quali sono i suoi riferimenti nel nostro Paese.

Lui, Francesco Rosi, era l’emblema del cinema politico, dell’impegno, generoso e veemente come le sue proverbiali sfuriate, quel cinema che nell’Italia alle soglie delle grandi trasformazioni economiche e sociali, ma anche antropologiche – il suo film d’esordio, La sfida, è del 1958 – racchiude già in sè i germi di un paradosso politico che ne segneranno il destino sino al presente. Corruzione, avidità, le colate di cemento che divorano i nuovi paesaggi urbani, e quel sud, messo da parte, che di questo diviene quasi un laboratorio, a cominciare dalla sua Napoli, la città dove Rosi era nato, il 15 novembre del 1922, figlio della borghesia napoletana – il padre gestiva una compagnia marittima – e che attraverserà in modo obliquo la sua opera.

Studi di giurisprudenza, il giovane Rosi vanta tra i suoi amici Raffaele La Capria, Napolitano, Patroni Griffi, Luchino Visconti, e ai libri di legge sembra prediligere le illustrazioni per bambini. Il cinema arriva nella sua vita con il regista di Rocco e i suoi fratelli che lo chiama come suo assistente sul set de La terra trema (1948). Sarà poi sceneggiatore di Bellissima (1951) e collaboratore in Senso (1953). Qualche anno dopo Rosi firma il suo primo film da regista, La sfida (da un suo soggetto e con la sceneggiatura scritta insieme a Suso Cecchi D’Amico, aiuto regista era Giulio Questi), costruito sulla parabola di un giovane napoletano (Jose Suarez) distrutto dalla sua brama di soldi. Dietro si affacciano banditismo, ricatto dei contadini, controllo della malavita sui mercati generali. Il film vince un premio speciale a Venezia, la critica lo accoglie piuttosto bene (a parte qualcuno tra cui Moravia). «In quei tempi credevamo che denunciare all’opinione pubblica certi mali significasse in qualche modo combatterli e forse eliminarli. Il cinema sembrava l’arma più efficace per raggiungere questo scopo, e da questa convinzione fortemente radicata sono nati i film più belli di Francesco Rosi» scriveva l’amico Raffaele La Capria (in Francesco Rosi, a cura di Sebastiano Gesù, 1991) che partecipa alla scrittura di Le mani sulla città. E da qui, dopo il secondo film, I magliari, tra gli italiani emigrati in Germania, partono i capolavori rosiani come Salvatore Giuliano (1962), Le mani sulla città (1963), Uomini contro (1970), Il caso Mattei (1972).

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E non si tratta soltanto di confrontarsi senza censure o autocensure con i lati oscuri della storia del nostro paese, come il cadavere del bandito Giuliano, morto ammazzato dopo la strage di Portella delle Ginestre, strage mafiosa in un Primo maggio di lotta, contro i lavoratori e a favore del latifondo che Rosi smaschera con potenza. «Di sicuro c’è solo che è morto» scrivono le cronache nel luglio del 1950 su Giuliano. Si parlerà di film-inchiesta, Rosi documenta sempre in modo assai scrupoloso le sue ricerche trattando fatti «realmente accaduti». Ma questo non gli basta: ognuno di questi film trova infatti la sua verità in una scelta visiva, e narrativa, forte, spiazzante, che in quei frammenti di cronaca non divenuta Storia cerca gli interrogativi aperti, e i problemi irrisolti. Sarà per questo che i film di Rosi sono più che sgraditi alla critica andreottiana, e anzi Le mani sulla città, col suo denudare il sacco di Napoli, così simile al sacco di palazzinari e politici compiuto ovunque in Italia, subisce gli attacchi della censura. E non saranno in molti nell’Italia democristiana a vedere la mano dei poteri economici nella morte di Enrico Mattei, che a capo dell’Agip pensa di rivedere gli accordi sul petrolio con la Libia, e difatti il suo aereo precipita fuori Milano. Protagonista ne è Volontè icona di altri film del regista, tra cui Cristo si è fermato a Eboli.

Il cinema di Rosi, fino a un certo punto, è dunque un cinema che vive nello scontro (e nel confronto) col proprio tempo, e che nel racconto caustico, nella denuncia di quei silenzi di stato, fatta a gran voce, senza spaventi, trova anche l’impeto per mettersi alla prova, e per inventare una forma che saggia, a ogni film e al massimo, i suoi limiti.  «Fare cinema significa contrarre un impegno morale con se stessi e con lo spettatore. Gli si deve l’onestà di una ricerca della verità senza compromessi. Più ci si addentra nel reale e più si ha la coscienza che il vero e il giusto non esistono. Quel che conta è la nitidezza della ricerca» aveva detto Rosi ricevendo tre anni fa il Leone d’oro alla carriera alla Mostra di Venezia.

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È certo che per diverse generazioni è stato un riferimento, pure se il senso di «cinema politico» è stato declinato in modo molto meno netto, e oggi, nell’era social di superfici lisce il suo significato esige di essere ripensato. Questo intreccio polemico necessario con la realtà del suo tempo, è forse quello che si perde negli ultimi film del regista. Dopo Tre fratelli, nel quale compare anche il brano Je so pazzo di Pino Daniele in un’allegorica sequenza onirica, gli anni Ottanta si riveleranno problematici e irrisolti per il regista. Se Carmen, reca ancora tracce del cineasta geniale autore di C’era una volta, uno dei suoi titoli meno celebrati, il successivo e disastroso Cronaca di una morte annunciata insinua il sospetto che Rosi si sia perso nei meandri delle coproduzioni da festival, tanto il film è lontano dal suo respiro più schietto. Le cose non migliorano purtroppo con Dimenticare Palermo dove il regista tenta di ritrovare il passo di una volta. È il 1990. Forse non era nemmeno giusto chiedere di più a un cineasta che aveva dato tantissimo.

L’ultimo sussulto rosiano giunge con Diario napoletano, un ritorno alla sua città e al suo film più proverbiale. Un tentativo a cuore aperto di riprendere un dialogo interrotto. La tregua, purtroppo ultimo film di Francesco Rosi, evidenzia solo una confezione inerte. Un film testamento che non rende giustizia all’opera di Francesco Rosi, tra le più ricche e affascinanti del cinema mondiale.