Il 15 giugno, data fissata dal governo per la riapertura delle sale, si avvicina ma la situazione dei cinema resta precaria, mentre continuano a nascere le piattaforme che consentono la fruizione dei film online. In merito il presidente dell’Anec (l’associazione nazionale esercenti cinematografici) Mario Lorini non si dice preoccupato: «Con le piattaforme si è cercato di coprire un vuoto, legato al fatto oggettivo che i cinema erano chiusi. La deroga alla finestra di 105 giorni per i film italiani è stata concessa solo per la situazione d’emergenza: quando i cinema riapriranno finirà». E, aggiunge il presidente della Fice (Federazione italiana cinema d’essai) Domenico Dinoia, «difficilmente il pubblico delle sale d’essai si allontanerà dai cinema: sono convinto che quando ne avrà la possibilità tornerà in sala».

A PREOCCUPARE entrambi sono invece le misure per la riapertura, che all’indomani della pubblicazione del decreto Lorini ha definito «irricevibili». Perché, spiega, non mettono le sale cinematografiche nelle stesse condizioni di altre attività – bar, negozi, ristoranti, dove ad esempio non è richiesta la misurazione della temperatura – per cominciare la ripresa. In primo luogo per la permanenza – nell’allegato al decreto che illustra le misure di sicurezza – del «distanziamento interpersonale», che invece gli esercenti avevano chiesto di tramutare in distanziamento di gruppo: la possibilità cioè di poter assistere a una proiezione senza mantenere la distanza dalle persone con cui si va al cinema – nel caso di compagni e nuclei familiari – ma solo dal resto del pubblico, che permetterebbe anche una maggiore occupazione delle sale. «Abbiamo bisogno di recuperare almeno il 50% del possibile box office, quindi anche degli occupanti».

E, aggiunge, ai bar e ai ristoranti è consentito lavorare ma non ai punti di ristoro dentro i cinema: «Avevamo chiesto che ci venisse data la possibilità – anche accettando delle limitazioni sulla tipologia dei prodotti in vendita – di riaprirli anche noi». Per questi motivi «abbiamo chiesto alle istituzioni un’urgente revisione delle disposizioni: è importante trovare un modo che consenta la rimessa in moto della macchina». Con questo protocollo, osserva infatti anche Dinoia, «non siamo in condizione di riaprire». E le sale d’essai sono quelle più in difficoltà: «Al di là dello stanziamento d’emergenza, che è stato annunciato ma non abbiamo ancora mai visto, le sale d’essai devono ancora prendere il contributo dello stato del 2018: c’è un ritardo pazzesco».

E LA DELUSIONE e perplessità di fronte alle misure imposte dal decreto è anche fra i motivi, secondo le parole di Lorini, della polemica scoppiata fra esercenti e ragazzi del Cinema America, che hanno appena annunciato il ritorno, a Roma, della loro manifestazione gratuita Il Cinema in Piazza. «Hanno subito detto siamo pronti: noi no invece, e quest’anno – un anno particolare, unico e ci auguriamo irripetibile, in cui tutto il Paese si è bloccato – ci aspettavamo che ci fossero più vicini, che aspettassero magari di vedere come si sarebbero organizzati i cinema e le arene estive». Gli scopi sociali dell’iniziativa dei ragazzi del Cinema America, il loro lavoro su spazi abbandonati, «vanno più che bene», dice il presidente dell’Anec. Ma, aggiunge, «se una manifestazione gratuita come la loro venisse fatta in un piccolo centro italiano qualunque arena a pagamento sparirebbe». E questo a prescindere dal fatto che, come ha sottolineato Valerio Carocci del Cinema America, la loro rassegna programma solo retrospettive, e offre un evento sociale a chi è in difficoltà economica a causa della crisi. «Anche il cinema a pagamento – dice Lorini – è un’attività sociale, e il pagamento corrisponde al lavoro delle persone, fra cui quei lavoratori dello spettacolo ’sommersi’ e rimasti in questi mesi senza sussidi».

MA AL DI LÀ delle polemiche, per il presidente Anec la priorità in questo momento è comprendere che «i cinema sono un patrimonio di tutti, vanno salvaguardati. Anche perché in questi anni gli schermi su tutto il territorio nazionale sono diventati 4000 su 8.000 comuni italiani». Il rischio più grande, aggiunge Dinoia, «è che abbiano le forze per restare aperte solo le grandi realtà, e che si possa perdere il nostro patrimonio di sale».