Fu una lunga, combattiva, appassionata vertenza quella di Cinecittà. 90 giorni che, purtroppo, non sconvolsero il mondo. Nel 2012. Si incrociò con un’improvvida iniziativa del governo presieduto da Mario Monti che inserì nella legge di stabilità un colpo ferale al Centro sperimentale di cinematografia.

Un “uno-due” terribile, ai danni di uno dei settori che ancora rendono credibile l’Italia nel mondo.

La vicenda del Centro miracolosamente rientrò grazie a un emendamento, mentre la battaglia di via Tuscolana 1055 (ricordate Intervista di Fellini?) non ha mai trovato uno sbocco. La situazione, infatti, è ancora ferma alla soluzione provvisoria e instabile di allora. Su circa 200 addetti degli Studios (la parte produttiva del gruppo, privatizzata nel 1997) 100 sono in solidarietà, 38 del settore digitale e audio in cassa integrazione (provenienti da Deluxe digital Rome cui erano stati dati in “affitto”), 38 del laboratorio di sviluppo e stampa in mobilità, direttamente licenziati dopo che la Deluxe Italia ha rescisso il contratto di affitto.

A vuoto sono andate le trattative presso un remissivo Ministero per i beni e le attività culturali, che pure si è mostrato solerte e generoso con Abete e soci, rateizzando per un periodo lungo i debiti contratti per l’affitto. Trattative interrotte, situazione assurda, visto che parliamo di uno dei grandi asset culturali. Mentre è risultato al di sotto delle aspettative Cinecittà World a Castel Romano (il parco giochi), considerato ottimisticamente dagli ideatori un toccasana.

Da ultimo. Come in una pièce dell’assurdo, lo stato delle cose è rimasto pressoché inalterato, ancorché la quantità di film e audiovisivi girati a Cinecittà sia nettamente aumentata. Sì, certamente il motivo sta nella messa a punto del credito di imposta – dunque risorse pubbliche – esteso alle opere straniere (il tax credit, finalmente rifinanziato in modo più adeguato), efficace misura per attrarre gli investimenti. Ma tant’è. Così, ecco una serie di Sky affidata a Paolo Sorrentino (The young Pope), DiaboliK, Quo vado di Checco Zalone, la ripresa delle fiction Un medico in famiglia e Squadra mobile. Oltre a Zoolander 2 e al remake di Ben Hur. E al Grande Fratello.

Al punto che sono stati affidati appalti a cooperative o service per sopperire alle esigenze, come stigmatizzato dalla RSU. Perché il quadro delle relazioni industriali e sindacali è rimasto precario, come prima, più di prima?

Tra l’altro, qualcuno dovrebbe porsi il quesito sull’opportunità che in capo alla stessa figura (Luigi Abete) stiano sia una cospicua quota societaria degli Studios sia la presidenza della Banca nazionale del lavoro: uno dei principali sponsor del cinema. E proprio nel gruppo della Bnl sta quella Artigiancassa, attraverso la quale passano materialmente le erogazioni.

Nessun investimento – erano stati previsti 7 milioni di euro – si è concretamente realizzato. In breve, aumento della produttività, ma svalorizzazione del lavoro.

Sullo sfondo incombe sempre l’edificazione dentro Cinecittà di un albergo e chissà che altro. Almeno la Rai ha occupato alcuni studi: episodio effimero –per l’inagibilità della Dear- o (giusta) strategia?

L’Anac, l’associazione degli autori cinematografici, ha preso una posizione aspra, chiedendo certezze e una politica verso il cinema: rigorosa e non sloganistica. Una riforma. Un vero piano.

«Tutto va ben, madama la Marchesa, tutto va ben, va tutto bene», rassicurava la padrona il prudente maggiordomo.
Non è così, signor ministro.