Ribaltone in vista a Cinecittà. Gli «Studios», privatizzati con la legge n.346 dell’ottobre 1997, verranno presto «ripubblicizzati». Non solo e non tanto per un doveroso ripensamento politico o culturale. Si tratta, piuttosto, di un repentino salvataggio dalla china fallimentare della componente commerciale del gruppo, cui la sintassi liberista guardava come al faro dell’intera industria culturale italiana. Intendiamoci.

L’Istituto luce, che ha l’onere di rimettere un po’ d’ordine in una vicenda non commendevole, fa bene a intervenire.

La gestione della cordata che prese possesso della gloriosa struttura di via Tuscolana si è rivelata assai inadeguata. Persino l’affitto ha visto un arretrato consistente. Nel 2012 fu operata una ristrutturazione pesante, dagli effetti nefasti sull’occupazione: ricorso ai contratti di solidarietà e la cessione all’esterno di rami societari.

Con un approccio finalmente depurato di fardelli del passato – urlavano i capitani coraggiosi – ecco che si sarebbe dischiuso un futuro luminoso. Venne ipotizzata una parziale edificazione della vasta area (antico oggetto del desiderio), con la proposta di costruire un mega albergo all’interno delle mura. Era forse l’inizio di una vera e propria strategia di trasformazione del gioiello del cinema in un’altra cosa. Del resto, sulla via Pontina – una delle zone di maggior traffico del paese – nasceva con luccichio mediatico il parco giochi di «Cinecittà world», rivelatosi un ulteriore flop. E tutto questo, naturalmente, veniva accompagnato da lezioni di capitalismo e dal rifiuto di confrontarsi con le maestranze.

Non a caso si rese indispensabile una lunga e appassionata occupazione, seguita con interesse all’estero ma purtroppo sottovalutata in Italia, e dallo stesso Ministero dei beni culturali.

L’associazione degli autori, in testa Citto Maselli ed Ettore Scola, diede il massimo sostegno. Anzi. Fino all’ultimo Scola si prodigò, con prese di posizioni e comunicati. Nonché appelli a Dario Franceschini.

Ora forse si volta pagina. Il ritorno nell’alveo pubblico degli studios non sia, però, un mero espediente finanziario. Può, al contrario, divenire l’avvio della ricostruzione di una moderna politica pubblica.

Per contrastare la deriva verso l’appiattimento super commerciale in atto, neppure premiato – se non in pochissimi casi, come raccontano i dati annuali sugli incassi – dai cittadini-fruitori, è necessario intraprendere una strada coraggiosa e innovativa. Il cinema era e rimane la cifra qualitativa del sistema, soprattutto se si investe nei e sui settori indipendenti. Sul documentario e sulle opere «difficili», di cui è un felice esempio Fuocoammare. E se si scommette in modo rigoroso sull’intreccio con la creatività digitale della rete.

Si riapra la discussione pubblica su Cinecittà, il ministero emani un indirizzo specifico, un aggancio si trovi nei decreti attuativi della recente legge di riforma.

In un rinnovato polo pubblico potrebbe riaprirsi il capitolo del rapporto con la Rai, cui la nuova concessione potrebbe imporre l’obbligo di produrre proprio a Cinecittà. Anche il cinema e l’audiovisivo sono sottoposti, infatti, alla tragedia della delocalizzazione, dell’utilizzo massivo del precariato, della morte del lavoro vivo.

Come è noto, in giro per il mondo Cinecittà è un brand forte e prestigioso di un paese in crisi e in declino. Non solo. Le stesse molteplici piattaforme tecnologiche, capaci di moltiplicare canali e forme di fruizione, hanno disperato bisogno di contenuti. Il messaggio è il mezzo.