Cindy Sherman, nascosta in piena vista ad Atene
Cindy Sherman, Untitled #97, 1982 (Per gentile concessione dell'artista e di Hauser & Wirth, © Cindy Sherman)
Cultura

Cindy Sherman, nascosta in piena vista ad Atene

Mostre L’artista americana espone la sua mostra «Early Works» al Museo di arte cicladica
Pubblicato 3 giorni faEdizione del 24 settembre 2024

Perché, fra le tante iniziative possibili, il Museo di arte cicladica di Atene abbia deciso di dedicare una mostra di notevoli dimensioni – oltre cento le fotografie esposte – ai primi anni dell’attività artistica di Cindy Sherman (Cindy Sherman at Cycladic. Early Works, visitabile fino al 4 novembre), non è immediatamente chiaro. Difficile, se non impossibile, trovare una relazione fra l’opera dell’artista e fotografa americana, così saldamente legata all’immaginario contemporaneo a cavallo tra i due millenni, e le piccole statue che, scolpite oltre cinquemila anni fa nell’arcipelago delle Cicladi, hanno influenzato in modo potente l’arte del ventesimo secolo, da Modigliani a Brancusi, a Moore.

Non a caso, nel catalogo, manca una qualsiasi testimonianza di Sherman che in qualche modo avalli l’accostamento, anche se nella sua introduzione Aphrodite Gonou, curatrice per l’arte contemporanea del museo ateniese, cerca a fatica di istituire un nesso al femminile fra la collezione permanente archeologica in cui si «racconta la storia del ruolo delle donne attraverso i secoli – madri, mogli, amanti, concubine, sacerdotesse, guerriere e regine» e il percorso di Sherman, che «risuona profondamente in un mondo alle prese con le dinamiche mutevoli dei ruoli di genere tradizionali».

PIÙ SAGGIAMENTE, nel suo testo critico, Flavia Frigeri, curatrice presso la National Portrait Gallery di Londra, evita rischiosi parallelismi e preferisce concentrarsi sulle opere presenti nella mostra, la prima personale dedicata a Cindy Sherman in un museo greco: la serie integrale (70 fotografie in bianco e nero) dei celeberrimi Untitled Film Stills, che risalgono agli anni tra il 1977 e il 1980, quando l’artista si era appena tras-ferita a New York; diverse foto dal ciclo a colori delle Rear Screen Projections (1980); la serie, anche questa molto famosa, dei Centerfolds, del 1981, concepita su richiesta di Artforum, ma mai pubblicata dalla rivista; e infine le grandi immagini verticali dei Color Studies, realizzate fra il 1981 e il 1982, che introducono un cambiamento importante, perché – a differenza delle precedenti – qui Sherman si fotografa guardando la macchina e dunque lo spettatore.

PROPRIO I MENO noti Color Studies – visti nel contesto dei primi vertiginosi cinque anni in cui l’artista, non ancora trentenne, traccia le linee principali di una ricerca tuttora attiva – possono essere utili per guardare all’opera di Sherman da una prospettiva più ampia. Se la cifra di tutti i suoi lavori è e resta il travestimento (come attesta oggi il profilo Instagram della fotografa, dove vengono usati strumenti diversi dal make-up, vedi la serie Evolution of an AI usage), questi pseudoautoritratti dei primi anni Ottanta rivelano come sia riduttivo circoscrivere il percorso di Cindy Sherman alla rappresentazione degli stereotipi sulla femminilità – un aspetto sicuramente centrale nella sua opera, e che tuttavia non ha come punto di avvio uno sguardo esterno, come sarebbe logico supporre, ma si fonda sulla interiorizzazione del cliché e su una sua possibile messa in discussione.

Cindy Sherman
Untitled #80, 1980 (Per gentile concessione dell’artista e di Hauser & Wirth,
© Cindy Sherman)

Coevi di una serie, Pink Robes (non presente alla mostra ateniese), dove l’artista, poco truccata e coperta solo da un accappatoio rosa, «interpreta» una modella in pausa tra uno scatto e l’altro, di nuovo fissando l’apparecchio fotografico, i Color Studies propongono una galleria di donne che adesso, a distanza di oltre quarant’anni, rivelano una sensibilità queer, per usare una terminologia contemporanea: donne spesso androgine, lontane dai canoni della femminilità che siamo usi far coincidere con l’immaginario visuale dei primi anni Ottanta.

Frigeri chiude il suo testo sottolineando che in questa narrazione «né passato, presente e futuro si fondono in un’unica dimensione temporale, mentre Sherman presta il suo corpo al commento sociale di una realtà nascosta in bella vista»: una riflessione «sulla natura ambigua dell’apparenza quantomai attuale nell’era del clamore dei social media» – e, si potrebbe aggiungere, sulla fallacia delle etichette che tendiamo ad applicare ai tempi precedenti a quello in cui ci tocca vivere e ai quali attribuiamo una bidimensionalità evidentemente falsata dalla prospettiva. Se questi ragionamenti valgano anche per il periodo in cui è fiorita l’arte cicladica, è possibile, ma non è dato sapere.

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