L´artista che manipola se stessa, attrice e fotografa di sè, ora soggetto, ora oggetto: è questa Cindy Sherman, interessante performer del nostro tempo in mostra ora a Berlino fino al 10 Aprile 2016 (spazio Collectors Room Berlin). Sessantacinque fotografie in una piccola esposizione, estratte da un vasto corpus in bianco e nero, alternato a malinconici landscapes e scosso dai colori forti degli anni Ottanta. Il filo rosso è quello dell´esistenza urbana, contemporanea, di una coscienza che si ricostruisce attraverso l´immaginario dei mass media. Cindy Sherman, qualsiasi cosa faccia, si dichiara dentro la cultura odierna, ma senza crociate morali, per carità, sulla società dello spettacolo. La serie in bianco e nero degli anni Settanta «Untitled Film Stills» le regala la fama mentre gioca a mettere in scena stereotipi femminili di certo cinema classico degli anni Quaranta e Cinquanta. Le pose «re inventate» si mostrano ambigue, la ricostruzione è asettica e il piacere di essere iconoclasta con le convenzioni visive è immenso. L´artista, nata nel 1954 nel New Jersey, rende l´atto del vedere il suo tema principale: in una instantanea surgelata il voyeur è invitato davanti all´immagine in una sensazione di ambiguità, ansia e preoccupazione. Lo stesso sottile mistero, la stessa attesa con cui seguiamo il viaggio di Janet Leigh in macchina con 40.000 dollari prima che inciampi sul destino di Norman Bates. La figura femminile ricorre nei lavori della Sherman in perfomances distinte, ma sempre con un tocco anonimo, come è anonima la spersonalizzazione nella società attuale, eppure profonda, al pari di un segreto affondato da qualche parte nel rapporto tra artista e spettatore. Il gusto per lo sgretolamento dello stereotipo ritorna nei lavori successivi degli anni Novanta, ovvero Untitled #250 #263 e #264 , dove manichini smembrati con falli, folte pelurie e vulve infinite, evocano la pornografia come una distanza e non nascondono l´influenza delle bambole «macellate» del surrealista Hans Bellmer (1902- 1975). Citando i vecchi maestri dell´arte con seni e addomi posticci, la Sherman ribadisce la sua furia e gusto per il ribaltamento dei codici visivi ma con la devozione (e il rispetto) di una giovane allieva, che sia il Bacco di Caravaggio o la Madame Moitessier di Ingres. L´effetto circense finale è una baraonda di nuovi corpi, nuove identità attraverso le maschere, gli atti performativi che la Sherman compie su se stessa, creando paradossalmente apparenze. È in questo filone che si pongono i lavori più recenti degli ultimi anni Duemila sui «falsi» ritratti di donne: aspiranti starlette avanti con gli anni, in cerca di seconde chances oppure signore dell´alta società. In entrambi i casi osserviamo degli stereotipi di donne, prigioniere di ruoli che esse stesse rilanciano e ostentano per dare una falsa impressione di se stesse, sforzandosi di confermare il proprio status. Questo concetto «shermaniano» di artificio del ruolo, non privo di effetti grotteschi, è portato alle estreme conseguenze dalla serie di foto a colori dedicata alla figura del clown, impersonato dalla stessa artista nel suo ennesimo ed esplosivo trasformismo. Il clown è l´essenza del performer, essendo lui stesso performer di sè, come spettacolo assoluto della follia, sia nostra sia dell´artista: maschere tragiche che non fanno sconti sull´ambiguità di questo tempo storico surreale.
@NatashaCeci