Ben 41.687 tonnellate di ananas vendute in soli quattro giorni. E’ l’impresa compiuta dalla campagna #FreedomPineapple lanciata dal governo taiwanese per rilanciare le esportazioni del frutto tropicale in seguito alla chiusura del mercato cinese. 

Tutto è cominciato alla fine di febbraio, quando Pechino ha annunciato la sospensione delle importazioni di ananas taiwanesi a causa della presunta presenza di parassiti. Una spiegazione che, considerate le costanti tensioni con il governo cinese, non ha convinto la leadership guidata dalla leader progressista Tsai Ing-wen. La risposta è stata immediata. All’istituzione di un fondo da 1 miliardo di dollari taiwanesi (36 milioni di dollari) per contrastare l’impatto del ban e promuovere le vendite all’estero ha fatto seguito l’appello via Twitter del ministro degli Esteri Joseph Wu: invitiamo “gli amici in tutto il mondo a unirsi [al movimento] #FreedomPineapple”. 

Alla richiesta di aiuto hanno risposto non solo i consumatori taiwanesi, ma anche paesi come Australia, Singapore, Vietnam e soprattutto il Giappone. Battendo ogni record, 5000 tonnellate hanno raggiunto l’arcipelago, tanto che nel giro di meno di una settimana è stato venduto più ananas di quanto non ne sia stato spedito durante tutto il 2020 in Cina, primo paese importatore con una quota di mercato del 97%. Un giro d’affari suggellato dal coreografico sostegno delle missioni diplomatiche sull’isola: l’ambasciatore americano Brent Christensen si è fatto immortalare con tre grandi ananas sulla sua scrivania, la Gran Bretagna ha condiviso su Facebook la ricetta della torta rovesciata all’ananas, mentre l’ufficio di rappresentanza canadese ha pubblicato una foto del personale con pizze guarnite indovinate un po’ con cosa? Ananas, ovviamente.

Il caso #FreedomPineapple merita attenzione. Proviamo a immaginare se gli ananas taiwanesi fossero sostituibili con salmone norvegese, vino australiano o canola canadese. Quello degli ananas può diventare un precedente per tutte quelle nazioni invischiate in dispute commerciali con la Cina? Ritenuta da Pechino una provincia ribelle da riconquistare, negli ultimi cinque anni di presidenza Tsai, Taiwan ha sperimentato una costante emarginazione internazionale a causa delle pressioni cinesi. Ora l’ostracismo cinese rischia di isolare Taipei non solo dalle organizzazioni internazionali, ma anche dai principali accordi commerciali che, avendo epicentro in Asia, inevitabilmente risentono dell’influenza politica cinese. Già esclusa dal Partenariato Economico Globale Regionale, il più grande blocco commerciale del mondo, è probabile che l’ex Formosa dovrà rinunciare anche alla Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership, dopo che Pechino ha espresso il desiderio di entrare a farne parte.

Ma Taiwan è in buona compagnia. 

Fino a oggi sono almeno una dozzina i paesi ad aver sperimentato ritorsioni commerciali per aver pestato i piedi al governo cinese. Il primo caso di protezionismo punitivo si fa risalire al lontano 2010, quando l’assegnazione al dissidente Liu Xiaobo del premio Nobel per la pace (che si tiene a Oslo) spinse Pechino a bloccare le importazioni di salmone norvegese. In tempi più recenti misure analoghe hanno colpito la canola canadese e vari prodotti australiani dopo che il caso Huawei e le polemiche sull’origine del coronavirus hanno sfilacciato le relazioni diplomatiche con Ottawa e Canberra. 

Mentre i costi economici per i paesi colpiti sono generalmente piuttosto limitati, le ripercussioni per i singoli settori e le aziende interessate, invece, spesso sono considerevoli. Pechino non ha mai ammesso la natura sanzionatoria delle restrizioni commerciali, che solo in alcune circostanze hanno indotto la nazione penalizzata a esaudire le richieste cinesi. Ma la scelta delle merci insospettisce, trattandosi sempre di articoli acquistabili facilmente altrove senza compromettere la stabilità del mercato interno. 

#FreedomPineapple dimostra come l’approccio muscolare delle autorità cinesi stia favorendo la nascita di una risposta concertata all’interno del Pacific-Rim democratico, di cui “la Cina liberale” oltre lo Stretto – martirizzata da Pechino – è il vero centro nevralgico. Qualcosa di simile era avvenuto su scala minore mesi fa con la campagna #AustraliaFreedomWine dopo l’imposizione di dazi sul vino australiano. D’altronde, la sicurezza delle forniture commerciali è stato uno dei temi centrali tanto del primo vertice quadrilaterale tra i leader di Stati Uniti, Australia, India e Giappone, quanto della visita a Tokyo del segretario di Stato Antony Blinken e del capo del Pentagono Lloyd Austin. Il concetto di “Indo-Pacifico libero e aperto” non prevede più solo esercitazioni militari congiunte in chiave anti-cinese, ma anche la nascita di sodalizi economici tra nazioni ideologicamente affini. Tanto che alla viglia del meeting di Anchorage, Washington ha escluso un miglioramento delle relazioni bilaterali se Pechino prima non interromperà le ritorsioni commerciali contro Canberra. 

Funzionerà?

Secondo Bonnie Glaser, senior adviser del CSIS, il successo riscosso dagli ananas taiwanesi potrebbe rappresentare una fortunata eccezione. “Innanzitutto riguarda un prodotto facile da vendere ad altri acquirenti. Nel caso dell’Australia, invece, sono oltre 12 le merci colpite”, ci spiega l’esperta sottolineando inoltre la presenza di interessi conflittuali all’interno della coalizione a guida statunitense. Per esempio, “vietate le importazioni di aragoste australiane, ora la Cina sta comprando più aragoste dagli Stati Uniti a tutto beneficio dell’industria americana. Cosa dovrebbe fare in questo caso Washington?”