Che la Cina stia avanzando a passi velocissimi nel mondo della biomedicina, alla ricerca del titolo di paese leader nel settore, è evidente ormai a tutta la comunità scientifica globale. Investimenti ingenti e programmazione centralizzata settimana dopo settimana si traducono in pubblicazioni sempre più numerose, studi sempre più raffinati ed avanzati e soprattutto in risultati che arrivano molto prima dei team statunitensi.

Mai come ora la biomedicina americana sente il fiato sul collo. Mentre East coast (Broad Institute a Boston) e West coast (Università di Berkeley, vicino San Francisco) si fronteggiano a suon di milioni di dollari per la battaglia brevettuale dell’invenzione biotech del secolo, CRISPR/Cas9, che nelle speranze degli investitori si tradurrà in prodotti terapeutici dirompenti che al momento neppure esistono sul mercato, la Cina allunga il passo sulla sperimentazione clinica. Risale infatti all’ottobre 2016 l’annuncio della prima sperimentazione sull’uomo, prima in Cina e prima nel mondo, che applicava CRISPR, la rivoluzionaria tecnica di modifica del DNA poco costosa e precisa ormai diffusa in tutti i laboratori di ingegneria genetica del mondo, per testare una potenziale cura per un particolare forma di tumore al polmone in fase avanzata.

Mentre già da mesi i media scommettevano su quale sarebbe stato il primo team americano ad avviare i test sull’uomo con CRISPR, la Cina aveva nuovamente sparigliato le carte, così come lo aveva fatto ad aprile 2015 con il primo studio, pubblicato su «Protein & Cell», che descriveva la manipolazione di staminali embrionali umane non destinate all’impianto tramite CRISPR. E oggi, mentre ancora negli Usa si aspetta la luce verde a procedere, sono già dieci i trial clinici condotti in Cina utilizzando la tecnica CRISPR in potenziali trattamenti per tumori solidi e del sangue in sviluppo avanzato, secondo i dati del portale clinicaltrials.gov che raccoglie la maggior parte delle sperimentazioni in atto nel mondo. 4 di questi 10 sono già in fase II, ovvero iniziano a valutare l’effettiva capacità di bloccare la proliferazione tumorale dopo aver dimostrato la non tossicità del trattamento. Due segnali indubbiamente molto forti della supremazia scientifica cinese nell’arrivare prima ai risultati, che però hanno aperto la porta a una critica diffusa nel mondo occidentale sul metodo con cui questi studi sono arrivati a conclusione: etica della ricerca e della medicina piuttosto lasche e poche regole per l’accesso e la conduzione di sperimentazioni in laboratorio e con pazienti in settori eticamente sensibili.

Molto spesso è questo il refrain che accompagna gli esiti scientifici che arrivano dal continente asiatico. Ma siamo davvero di fronte a una deregulation cinese in campo biomedico che permette studi e ricerche azzardati senza nessuno profilo di tutela per pazienti e rispetto di principi etici? La Cina, in realtà, se pur da non molti anni, è in rapida evoluzione anche nel mettersi in pari con la promulgazione ed attuazione di regole e condotte etiche nell’ambito della biomedicina. L’introduzione di meccanismi solidi di bioetica e etica clinica in Cina risale infatti agli inizi degli anni Ottanta, come riporta il report The Chinese Ethical Review System and its Compliance Mechanisms del progetto europeo TRUST. Proprio le prime collaborazioni in progetti di ricerca biomedica con paesi con regole stringenti (ad esempio, la partecipazione di un gruppo cinese al «Progetto Genoma Umano», impresa internazionale per il primo sequenziamento del DNA degli esseri umani, guidato dai National Health Institutes statunitensi) ha forzato anche la Cina a intraprendere un cammino verso la nascita di comitati etici in seno a dipartimenti di ricerca e centri clinici e ospedali. I primi comitati compaiono nei principali ospedali nazionali collegati ad importanti università a partire da metà degli anni ‘90.

Nel 1997, il Ministero della Salute cinese ha imposto la presenza di un comitato etico in tutte le istituzioni di ricerca medica. Nel 2003 l’agenzia che vigila sulle sperimentazioni cliniche e sulla successiva immissione in commercio di terapie dispositivi medici, la Chinese Food and Drug Administration (CFDA), ha diramato nuove linee guida in base alle quali solo istituti certificati che garantiscono diritti e dignità dei pazienti possono condurre sperimentazioni cliniche di terapie.

Le regole sono poi diventate più stringenti nel 2016 con l’adozione di nuove misure (ad esempio sul numero dei membri del comitato e l’expertise di afferenza, prevedendo anche rappresentanti dei pazienti e della società civile) che pongono la Cina in tutto e per tutto al pari di altri paesi occidentali, anche in questo settore.
Allora perché si continua a sentire e leggere che in Cina non ci siano regole opportune? Un gruppo di bioeticisti cinesi, con una pubblicazione che aveva riscosso molto successo nella comunità scientifica asiatica, fornisce una spiegazione che ha un sapore più geopolitico: discriminare i risultati scientifici cinesi eccellenti, adombrando poca solidità del rispetto dei principi etici, è una strategia messa in atto dai ricercatori occidentali per non considerare la Cina al pari delle comunità scientifiche statunitensi ed europee (e arrendersi all’evidenza).

Se è vero che le regole e gli strumenti ormai ci sono, la Cina è però ancora carente nelle procedure, come anche il report già citato del progetto TRUST fa notare. I processi non sono standardizzati e lasciano ampio margine di discrezionalità al singolo comitato etico e, nonostante siano previste ispezioni da parte di diversi enti nazionali e locali, difficilmente le verifiche per la corretta conduzione delle sperimentazioni cliniche avvengono negli ospedali cinesi troppo spesso affollati. Il problema è anche numerico: in Cina, ogni anno, circa 800 nuovi farmaci vengono testati sull’uomo, coinvolgendo circa 500.000 partecipanti. Un numero enorme che richiederebbe moltissimo personale adeguatamente formato, che al momento ancora non c’è.