Le foto, i video (perfino quelli propagandistici) e le frasi roboanti di tanti (soprattutto quelli asiatici) tra i leader mondiali accorsi a Pechino il 14 e il 15 maggio 2017, in occasione del primo forum per la Belt and Road Initiative (BRI, una denominazione più «internazionale» per quella che in Cina viene chiamata «One Belt One Road»), devono aver fatto sorridere intimamente molti cinesi: la Cina è sembrata ancora una volta al centro del mondo.

Xi Jinping, il presidente della Repubblica popolare e artefice dell’idea della nuova via della seta, deve aver ricordato alla popolazione i famosi e potenti imperatori dell’antichità. Quelli raffigurati o descritti in orgogliosa postura sui troni mentre ricevono in udienza diplomatici di paesi lontani, convenuti a rendere il saluto di terre remote. Quegli imperatori avevano gli occhi fissi davanti a sé nell’osservare dall’alto i dignitari stranieri, i rappresentanti di imperi lontani ma ritenuti poca cosa rispetto alla Cina e tutti racchiusi «sotto il cielo (della Cina)», inchinarsi sbattendo la loro presuntuosa fronte a terra in segno di deferenza. Quegli imperatori non erano certo lì per dare particolari indicazioni politiche o strategiche: a quello provvedeva il fascino e la cultura cinese. Se mai erano in attesa di ricevere tributi, di organizzare matrimoni, di gestire l’Impero attraverso una logica «orientale».

Per i cinesi il forum sulla nuova via della seta deve aver rappresentato una sorta di inizio di quel «Sogno cinese» (zhonguo meng) che Xi ha profetizzato all’inizio della sua leadership e a cui sembravano credere solo i suoi più vicini collaboratori. Una specie di emanazione del passato applicata ai giorni nostri, con lo scopo che tutti i cinesi si sono sempre prefissi, dopo quello che è stato definito come «il secolo delle umiliazioni»: riportare il paese al posto geografico, politico, storico, divino, che gli spetta.

Il progetto di novella via della seta ha ancora molti punti oscuri; alcune delle sue caratteristiche o dei suoi sviluppi futuri non sono ancora noti neppure ai paesi che in qualche modo desiderano o aspirano a rimanere agganciati al treno cinese; ci sono dubbi sugli investimenti e sulla scelta di alcuni snodi in posizioni geografiche e geopolitiche decisamente «a rischio»: eppure questa proposta globale ha forse già ottenuto quella che costituisce solo una delle tante speranze future della dirigenza cinese, ovvero il riconoscimento della Cina come l’unico paese che coltiva una vera e solida visione globale, in grado di esercitare una potenziale egemonia geopolitica. La Cina appare oggi l’unica potenza affidabile, in grado di redimere tensioni internazionali (vedi la Corea del Nord) e soprattutto l’unica con una visione chiara, sicura, determinata, tutto sommato pacifica e dotata delle risorse necessarie in quanto potenza economica ormai mondiale. Tutte le nazioni sembrano dunque disposte a cedere a Pechino il controllo su zone del mondo fondamentali per gli scambi commerciali: in cambio potrebbero avere una fetta di una torta succulenta e pace nei territori nei quali operare economicamente.

Per Pechino significa – finalmente- cancellare l’epoca delle umiliazioni, il secolo terribile delle guerre dell’oppio, della caduta ingloriosa dell’ultima dinastia imperiale, dell’occupazione giapponese, dello scontro tra comunisti e nazionalisti; la fine di qualcosa che non dovrà più ripetersi. Di sicuro Xi Jinping ha ben presente cosa sta offrendo al suo popolo: una «grande rinascita della nazione cinese», nelle sue parole, una «rivincita» nel sentimento più diffuso. E le tecniche con le quali il presidente e il suo entourage hanno costruito l’attuale «narrazione» si è servita anche di vecchi slogan maoisti insieme con altri paradigmi classici della cultura e della tradizione del paese: «In questo sapiente mescolamento il precedente discorso rivoluzionario viene completamente smontato e scomposto e poi pazientemente ricostruito in una chiave che è spiccatamente riformista, ma senza provocare alcuna apparente cesura con il passato della ortodossia maoista, che rimane per altro in compagnia di Confucio e dei mille altri gloriosi antenati, come una brillante faccia del mutevole prisma della Cina di oggi», hanno scritto Alessandra C. Lavagnino e Bettina Mottura in «Cina e modernità» (Carocci editore, 2016)

È dentro questo prisma che prende forma l’idea di Xi della nuova via della seta, giocando sulla storia delle tratte commerciali antiche e risalenti a un’indefinita età in cui la Cina giocava un ruolo centrale. Un’idea che ripropone la Cina al centro del mondo dopo un periodo di difficoltà, isolamento e dapprima lento, poi incredibile sviluppo economico.

In questo quadro è interessante analizzare due fenomeni apparentemente in contrasto – almeno in una logica occidentale – : l’emergere di una posizione «globale» della Cina affiancata da una politica estera più determinata rispetto al passato, insieme a una identità che appare sempre più «nazionalista», arrivando addirittura ad avvicinarsi a forme di populismo come le conosciamo in Europa. Come possono questi due elementi, uno «globale», l’altro «nazionale», non solo convivere ma paradossalmente nutrirsi l’uno dell’altro? Per comprenderlo converrà spogliarsi dell’eurocentrismo classico nell’approccio con l’altro, ancora più scontato quando si tratta di Asia. La «narrazione politica» degli intellettuali cinesi nazionalisti, infatti, si nutre di elementi relativi a una «rinascita nazionale» che in Cina possiede storicamente un afflato internazionale, globale.

La Cina è sempre stata una delle potenze più rispettate nel mondo, sicuramente leader dei paesi asiatici. Al Celeste impero venivano attribuiti ora potenza, ora fascino, ora doti intellettuali fuori dal comune, ora un’organizzazione amministrativa da prendere come esempio. Noi europei abbiamo nella nostra memoria solo il periodo che i cinesi chiamano «dell’umiliazione». Si tratta di una fase storica ricordata da tutti i leader cinesi dal 1949 a oggi come un periodo che non dovrà ripetersi mai più. Tutto il lavoro effettuato da allora, fossero Mao o Deng al potere è stato improntato a questo obiettivo: riportare la Cina al ruolo mondiale che gli compete. I cinesi hanno una grande considerazione di sé per quanto talvolta, almeno nella vita quotidiana, non sembri così. La nuova leadership di Xi Jinping ha lavorato dunque su un terreno già ampiamente dissodato: in un paese che aveva abbandonato Confucio, che si è ritrovato ad abiurare il maoismo, con il rischio di rifugiarsi in religione e settarismi vari, Xi ha puntato su un’identità «cinese», ancora una volta in contrapposizione a un Occidente stanco, decadente, uscito a pezzi dalla crisi del 2008: più povero economicamente e con un sistema politico, seppure decantato e addirittura esportato con la forza, sempre più in disfascimento, in piena crisi della rappresentanza e nelle mani di istinti populisti che nascono da paure e debolezze.

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