«The First Shot» di Federico Francioni e Yan Cheng che l’anno scorso erano a Pesaro con il corto «La tomba del tuffatore» e quest’anno hanno vinto il premio principale della Mostra, è un film-viaggio di tre esistenze differenti e lontane, cinque insieme ai registi, che sullo sfondo di una Cina in continua trasformazione, metafora della sostituzione di qualcosa d’indefinito non connesso al passato, cercano di affrontare l’angoscia esistenziale della generazione post ‘89, interrogandosi sulla mancanza di un passato da connettere al presente e trovare così un senso alla loro esistenza, al loro futuro.
Come nasce il vostro progetto?
F: Quando Yan Cheng è tornato dalla Cina dovevamo scegliere il tema per il saggio di diploma del corso voluto da Giovanni Oppedisano, ex direttore della sede CSC de L’Aquila a cui abbiamo dedicato l’opera. Yan mi diceva che stava male ripensando alle parole dei suoi amici e voleva fare qualcosa su di loro. Da lì abbiamo iniziato a ragionare sulla possibilità di fare un film intimo, che affrontasse questo senso umano di spaesamento.
Y: Sono tornato in Cina per il capodanno e ho sentito l’esigenza di raccontare la sensazione della mia generazione degli anni 90. Quando ero piccolo, non sapevo che questa epoca fosse così importante per la Cina. Dopo Tienanmen tutto è cambiato: la globalizzazione, il mondo digitale, il capitalismo. Gli anni ‘90 in Cina sono stati una fase particolare perché è un’epoca in cui abbiamo perso l’ideologia, siamo andati avanti senza pensare a niente. Questa mancanza è qualcosa di grave. Abbiamo fatto tantissimi sforzi durante la rivoluzione culturale; durante la rivoluzione di Tienanmen un sacco di gente si è sacrificata, ma durante gli anni ‘90 tutto questo si è perso.
In Cina si parla della rivoluzione dell’89?
Y: Non è scritto nella storia, come non si affronta in profondità la rivoluzione culturale. I ragazzi non capendo bene cosa è successo non vogliono riflettere. Questo film quindi diventa anche un momento di considerazione su questa rivoluzione, su cosa è successo prima di noi, sul passato e sul sacrificio di tante persone per il nostro futuro ormai indeterminato. È lì la forza, portare le persone a interrogarsi, ad avere una coscienza.
Nel vostro film questo tema risulta velato, accennato.
F: Abbiamo messo la storia alle spalle dei personaggi. Il primo sparo che dà il titolo al film è della rivoluzione del ’89, in cinese il titolo è Sh-sh che vuol dire 10.10, come la X sulla locandina, il 10 ottobre 1911. Per noi era importante contestualizzare questi ragazzi nati dopo tutto quello che è successo, per dare una luce sulla loro vita di oggi. Non volevamo affrontare la storia, ma questo senso umano di spaesamento; è più una ricerca, un racconto su un vuoto interiore sull’angoscia, che sulla storia affrontata di petto.
C’è un momento nel film in cui attraverso la domanda di un bambino si raccontano le giornate di Tienanmen. Da dove viene questo ricordo?
Y: Questa è una frase che appartiene alla mostra curata da Peng Haitao dove, con un’immagine, una frase raccoglie quello che è successo durante gli anni ‘80. Voleva utilizzare internet come strumento attraverso il quale un’unica persona riesce a combattere il sistema dell’industria dell’arte e curare una mostra anche da solo. Il tema di Tienanmen nasce da un racconto di una sua amica su questa esperienza. Da lì ha avuto l’idea di raccogliere tutti questi frammenti di memoria per trasmettere questa esperienza non come una rievocazione celebrativa, ma attraverso i ricordi personali e intimi; scendendo in profondità e individuando ciò che appartiene ad ognuno di loro. È stato un momento importante e fortemente sentito, ma subito censurato.
Nel film Haitao parla di metafore, parole che rimandano all’idea di quello che è successo.
F: Le nuove generazioni che si occupano d’arte hanno trovato dei modi, imparato ad aggirare la censura attraverso dei meccanismi associativi, giocando molto con le metafore. Ti faccio un esempio. In un quartiere lavoravano per l’alta velocità e hanno chiuso i cittadini dentro il perimetro del quartiere. Iniziarono a protestare e la polizia assoldò degli uomini che a ogni passaggio a livello picchiavano con dei bastoni le persone che manifestavano. Gli artisti del quartiere iniziarono a pubblicare nei loro blog dei fumetti americani con dei riferimenti a questa situazione; però mai in modo esplicito, ma con delle allusioni ironiche. Questo modo di affrontare situazioni così grandi attraverso degli specchi, dei rimandi è qualcosa che appartiene a tutta la nuova generazione che cerca di dare un significato al loro passato. In occidente ci accontentiamo di dire lì c’è la censura, senza capire che in realtà delle maglie da cui uscire ci sono.
Il vostro è un film che porta a delle riflessioni, a dei cambiamenti. Prima di questo viaggio come avete percepito la vostra esistenza, la vostra vita?
Y: Prima che andassi a trovare Peng Haitao, era pieno di energia per il suo nuovo progetto. Quando siamo arrivati, invece, era pieno di dubbi, depresso. Questa energia è stata bloccata ogni volta che i suoi articoli erano censurati. Il secondo ragazzo Liu Yixing ha deciso di abbandonare quasi tutto e di vivere in uno spazio limitato, cercando di arrivare a un senso. Però fuori dalla sua casa il senso che vogliono loro, non è l’obiettivo della sua vita. Lui è fortemente bloccato dal contrasto di un mondo sempre in cambiamento. C’è un forte distacco che lui non capisce e non riesce quindi a trovare un senso per se stesso. La terza protagonista, You Yiyi, sta cercando di capire e di trovare un rapporto con la sua famiglia e la loro storia. I tre personaggi hanno modi diversi nell’approcciarsi a questa ricerca di senso e questo viaggio è stato l’unico modo per mettere in contatto questi modi differenti; attraversarli, connetterli. Questo viaggio fatto insieme porta delle domande, dei dubbi, ma non a un punto fermo; è sempre un rilancio verso nuove domande. È un viaggio di senso sempre in atto.
F: Il film è un percorso complesso. Sicuramente non è un film che vuole accusare, non è un film a tesi. È chiaro che c’è un problema. E ci siamo accorti che questo è un problema universale. In Italia i miei amici quando vedono il film mi dicono che percepiscono anche loro quest’ansia. Ansia che sta vivendo tutta la generazione degli anni ‘90. C’è un senso di spaesamento, di un futuro vertiginoso che va verso un cambiamento. Certo qui non abbiamo un regime, non c’è questa situazione apocalittica di costruzione perenne. Abbiamo provato a raccontare attraverso l’anima di tre persone qualcosa di estremamente grande. Il passato che cos’è, qual è la mia identità? Per la ragazza del film il futuro è andare a Londra, la moda, vivere in un mondo internazionale; dove non c’è più la cultura, l’anima, il passato ma esiste un progresso tecnologico, un benessere, una tecnocrazia infinita che crea questo senso di angoscia. Quando Liu Yixing parla dei dettagli scomparsi, si chiede «che cosa vedo? Vedo che tutto il passato, le facciate degli edifici ogni tre anni sono rinnovati, viene tutto costantemente cambiato, non c’è il tempo di conservare qualcosa, di dare un senso al percorso esistenziale che uno sta vivendo». Lui arriva al paradosso quando racconta di essere andato in Canada e si rende conto che lì non riesce a vivere perché è tutto fermo, fisso, uguale. Dopo il film li ho rincontrati e sono un po’ cambiati, ma hanno sempre questo senso di spaesamento, è qualcosa ormai di costitutivo del loro essere.
C’è la possibilità che il vostro film esca in Cina?
Y: I modi ci sono sempre, i festival di cinema indipendenti o visioni private. Il problema è di non far passare il film come un problema politico, ma di sollevare le sensazioni personali, portare le riflessioni su uno stato dell’essere. Il film è politico, ma non lo è più se lavora su uno sguardo personale. Il mio lavoro è stato un atto di sincerità, non vuole essere qualcosa di manifestatamente grande. È anche un modo sincero di come noi vediamo il cinema, il mondo di oggi. Utilizziamo tutti i modi più semplici per arrivare alla gente, non usiamo modi iper-concettuali, risolviamo questi concetti attraverso i fatti.
F: Potrebbero esserci problemi. In realtà sono stati fatti tanti film che affrontano direttamente la storia, ma non è il caso del nostro film… però alla fine c’è anche Mao.. penso che ci sparerebbero a vista per vilipendio alla figura di Mao. Forse si, sarebbe un po’ problematico, ma sarebbe bellissimo e importante.
Da un punto di vista estetico i tre personaggi sono scanditi dalla luce e dai colori: il giorno, la notte e infine il viaggio attraverso l’acqua, come avete lavorato sulla fotografia?
Si, si passa dai colori un po’ spenti del primo, il secondo un bianco glauco e il terzo, immerso nella natura sulle tonalità del verde e del giallo. E dell’acqua quando lei fa questo viaggio attraverso il traghetto, come se andasse nel mondo dell’aldilà, dall’altra parte della vita per cercare.
E in questo viaggio, in questo villaggio sono ancora presenti, si possono vedere dei solchi di storia.
Si. È anche il relitto della nave che lei incontra sul suo cammino, è come la storia di Tienammen non presa direttamente. Quello è il relitto di una nave che due anni fa, nella Cina ipermoderna, che non fallisce mai, affonda nel Fiume Giallo pieno di anziani che si divertono. È una notizia che ha fatto scalpore, l’immagine della Cina crolla in un attimo. Ed era lì abbandonata, buttata in mezzo al fiume in un angolo, come un qualsiasi detrito.
A un certo punto arriva la polizia, avete avuto problemi per girare?
F: si e in quel momento mi sono allontanato e nascosto. Se la polizia trova un occidentale che riprende un relitto così, non so cosa potrebbe succedere. Infatti in molte situazioni ero un po’ come un clandestino. Le riprese nell’ultimo villaggio, in campagna mi sono divertito tantissimo a girare e Yan Chang faceva il suono. Ma appena passava la polizia mi lanciava il microfono e mi diceva di nascondermi e lui faceva finta di girare matrimoni, cose così.
Con quali supporti avete girato?
Con una Black Magic una camera digitale molto bella, perfetta per questo film. Poi molte cose con l’iphone dove in Cina ormai è diffusissismo; volevamo sperimentare questo formato che rende benissimo. Diciamo che è stato girato in modo abbastanza artigianale. Avevamo tre microfoni e noi due. Non avevamo nessuno ad aiutarci per il suono, la fotografia. Siamo due, con una camera e spesso ci alterniamo, una cosa la gira lui una io. Ogni volta che vediamo il materiale per montarlo ci diciamo che è un miracolo che ci sia qualcosa in una situazione così estrema. Abbiamo fatto le riprese sulla muraglia cinese con i telefoni perché non avevamo altro e Peng Haitao nudo che dice basta voglio spogliarmi nudo, farla finita, e va via nudo. Non è importante con che cosa giri ma riuscire a catturare i momenti e l’iphone è meraviglioso ti permette di catturare con una rapidità che prima non avevi, qualcosa che compare e scompare con una buona qualità.