Sono giornate frenetiche per la diplomazia cinese, su tutti i fronti. In Siria per coadiuvare gli sforzi russi (e iraniani) e fare qualcosa in più di un semplice sostegno diplomatico (Pechino invierà militari per addestrare i soldati di Assad); in «casa» con l’importante incontro con la rappresentante del Myanmar Aung San Suu Kyi e nel Pacifico: dopo le tensioni con Seul per lo scudo antimissile sud coreano, Pechino ha ingaggiato una nuova sfida con Tokyo a seguito di uno sconfinamento di una propria nave nelle acque territoriali giapponesi.

E naturalmente, parlando di equilibri asiatici, non può mancare la questione nord coreana. Per ovviare a questa situazione incandescente nel proprio «cortile di casa» Pechino avrebbe accettato, secondo quanto diramato da fonti giapponesi, un incontro da tenersi a Tokyo, tra alcuni giorni, tra i responsabili della politica estera dei tre paesi per discutere di quanto sta accadendo.

Per Pechino e Tokyo significherebbe anche anticipare un probabile incontro prima del prossimo G20 che si terrà proprio in Cina. Sugli equilibri dell’area pesa – e non poco – la questione legata alle isole contese, tanto nel mar cinese orientale, quanto nel mar cinese meridionale. Nell’ultimo periodo a scardinare la situazione è stata la sentenza della Corte dell’Aia che ha dato ragione alle Filippine nella contesa con la Cina, stabilendo, seppure in modo non vincolante, che le acque rivendicate dalle Cina sono invece internazionali.

Per Pechino – che ha definito quella sentenza «carta straccia» – le cose sono peggiorate alcuni giorni dopo, quando fonti dell’intelligence avrebbero rivelato un movimento di lanciamissili su cinque atolli delle isole Spratlys da parte del Vietnam, il più agguerrito stato anti cinese dell’area. Hanoi non avrebbe ancora armato i lanciamissili, con i nuovi acquisti di marca israeliana, ma la tensione è stata registrata anche a Pechino. Negli anni scorsi numerose proteste anti cinesi hanno creato non pochi problemi di ordine pubblico in un paese che per quanto percepito come una «piccola Cina», ha una popolazione di età media di 29 anni e un acceso spirito nazionalistico e anti Pechino. Nel gioco del Pacifico – quindi – la situazione è la seguente: la Cina rivendica sostanzialmente tanto le isole – per lo più disabitate – del mar cinese orientale quanto quelle del mar cinese meridionale.

Si tratta di zone marittime al centro di tratte commerciali fondamentali (parliamo del triplo del traffico del canale di Suez e quindici volte quello di Panama), nonché di fondali ricchi di risorse e di pesci (considerando che le economie dei paesi che si affacciano su quelle acque fanno della pesca un dei traini economici principali).

Tralasciando le isole contese in particolare da Cina e Giappone (Diaoyu per Pechino, Senkaku per Tokyo) nel mar cinese meridionale la Cina è sostanzialmente contro tutti: quelle isole sono rivendicate anche da Vietnam, Filippine, Brunei, Taiwan e Malesia. Contro Pechino ci sono anche gli Stati uniti, oggi alleati di ferro con Giappone e Vietnam e che entro il 2020 sposteranno in quell’area gran parte della propria flotta marittima: è la strategia «pivot to Asia» di Obama che ha un chiaro intento anti cinese. Con Pechino, le cui rivendicazioni in pratica hanno spaccato l’Asean, l’associazione di dieci paesi asiatici, solo il Laos e la Cambogia, con il Myanmar a fare da ago della bilancia.

Giappone e Corea chiederanno quanto chiedono sempre alla Cina: di non militarizzare l’area per evitare il rischio di incidenti. Pechino risponderà al solito modo, rivendicando la propria storica sovranità su quel mare.

Qualche spiraglio di apertura però, secondo rumors da Pechino, potrebbe esserci per quanto riguarda la Corea del Nord, per la quale la Cina non sembra più disposta a sopportare escandescenze, proprio a causa dei tanti ambiti diplomatici aperti.