La Cina nell’immaginario collettivo occidentale è un paese che viaggia sparato verso il futuro: economia alle stelle (per quanto leggermente in fase di rallentamento al 7%), mega città, mega costruzioni. Un paese dai numeri altisonanti, che favorisce spesso una narrazione degli eccessi, finendo nel tritacarne mediatico dello «strano ma vero». In una visione che appiattisce le complessità, la Cina nasconde al suo interno le contraddizioni che la caratterizzano. È il caso delle proteste per l’ambiente, del rinnovato senso civico della cosiddetta classe media e il cambiamento di costumi e degli usi sociali.

E come in ogni paese in via di sviluppo, come viene definito dalla leadership, anche il tema legato all’omosessualità rimane agganciato al progresso della società, ai suoi limiti, ai suoi divieti e alle sue «aperture». Tra balzi in avanti e passi indietro, anche la storia delle comunità omosessuali cinesi, o le singole vicende personali, si agganciano al movimento più generale che contraddistingue l’intero paese. E costituiscono uno dei tanti esempi per misurarne gli aspetti più profondi, la capacità di rinnovarsi e la volontà di superare, o meno, schemi prefissati dalla forte componente culturale confuciana che caratterizza la Cina.

La situazione relativa alla comunità Lgbt è cambiata di poco, rispetto a come l’aveva descritta la sessuologa Li Yinhe alla luce del primo Gay Pride cinese nel 2009: «Ci sono ancora grandi differenze. Nelle campagne la popolazione è più tradizionale e non ha grandi informazioni circa il sesso. Nelle città ormai è diverso, basta vedere il tasso altissimo di divorzi».

Di fronte a quest’insidia ancora presente e costituita dal tradizionalismo rispetto al nucleo familiare, per tracciare la storia dei diritti Lgbt in Cina, è necessario andare indietro nel tempo di almeno 60 anni. Dal 1949, anno della nascita della Repubblica Popolare Cinese, l’omosessualità è sempre stata un argomento tabù a cui non sono state prestate sufficienti attenzioni. Tutto era clandestino, tanto che molti omosessuali furono puniti con la prigionia, fino alle «riforme» attuate trent’anni dopo.

Nonostante «le riforme» avessero facilitato la complicata sopravvivenza della comunità Lgbt, essere omosessuale era comunque considerato un problema mentale; cambiamenti notevoli in materia si verificarono quando la sodomia venne decriminalizzata nel 1997 e quando, solo nel 2001, la lista dei «criteri della classificazione e diagnostica dei disordini mentali» rimosse l’omosessualità dall’elenco.

Ad oggi, con una comunità Lgbt che conta tra le 360 e le 480 mila persone, sebbene nella Repubblica Popolare non ci siano leggi specifiche contro gli omosessuali, non ci sono nemmeno leggi che li salvaguardino e le autorità si rifiutano – di fatto – di promuovere la tolleranza nei confronti della diversità, lasciando l’argomento tabù nella cerchia delle cosiddette «tre negazioni», che si spiegano nella formula «non approvo, non disapprovo, e non promuovo».

In un paese dalle molte contraddizioni e dal recente cambio di rotta in fatto di temi legati alla omosessualità e in continua crescita economica, sociale e quindi anche nelle abitudini e nella vita quotidiana, la storia del 72enne cinese Qu Bizhi, originario della città meridionale di Canton, è di particolare rilevanza. Qu è stato un ragazzo come altri; famiglia e infanzia normali, fino a rendersi conto della propria omosessualità. Ha deciso di raccontare la sua storia proprio al Renmin Ribao, il Quotidiano del Popolo, il giornale ufficiale del Partito comunista cinese, a dimostrazione di come certi temi oggi siano sdoganati anche nella stampa iper controllata dai funzionari e leader del paese. Dopo varie esperienze con alcuni ragazzi, Qu decise di fare quanto faceva la maggior parte degli omosessuali in Cina a quel tempo: rimase in silenzio a nascondere il suo orientamento sessuale finché non divenne evidente.

Nel 1984, all’età di 41 anni, per rispondere alle aspettative e alle rigide regole delle tradizioni e per condurre una vita «più tranquilla» e non esposta a rischi, Qu si sposò con una donna di 12 anni più giovane, conosciuta ad un appuntamento al buio organizzato da un suo amico. «Non provavo niente nei suoi confronti», ha affermato Qu nell’intervista.

Dopo essersi rifiutato di passare con lei la prima notte di nozze, e dopo tre angoscianti e tutt’altro che spensierati mesi di matrimonio, la donna chiese il divorzio, pratica che giunse a suo compimento trent’anni dopo. «Sposarla – ha raccontato al Quotidiano del Popolo – è stato l’errore più grande della mia vita». La storia di Qu è molto comune; come lui, tanti altri uomini e donne hanno voluto o più cinicamente hanno dovuto nascondere il loro orientamento sessuale per anni.

Se Qu Bizhi fosse stato adolescente al giorno d’oggi, avrebbe avuto altre possibilità: nonostante la società sia ancora improntata molto alle tradizioni culturali, ogni tanto si verifica qualcosa che potrebbe far pensare ad un’apertura del governo cinese nei confronti della numerosa comunità, tant’è che nel 2009 è stato aperto il primo gay bar finanziato dallo stato, gestito da una Ong riconosciuta dal Pcc e volto a diffondere informazioni sanitarie ed a garantire alla comunità Lgbt un luogo di svago e socializzazione.

Come Qu, però, tanti altri hanno visto le proprie battaglie scontrarsi contro il muro del governo. La sessuologa Li Yinhe, infatti, oltre ad essere stata uno dei relatori principali alla Conferenza internazionale dei diritti umani Lgbt di Montreal nel 2006, nelle veci di membro della Conferenza politica consultiva del popolo cinese propose ben tre leggi per la legalizzazione del matrimonio tra persone dello stesso sesso rispettivamente nel 2003, 2005 e 2006. Nessuna di queste proposte è fino ad ora stata approvata.