Prima della sconfitta nelle Guerre dell’Oppio di metà Ottocento scatenate dal colonialismo inglese la Cina imperiale, pur nella sua arretratezza tecnologica, era la maggiore economia, con un terzo del prodotto del globo e un reddito pro capite non lontano dalla media mondiale. Nel 1949 la Repubblica Popolare Cinese, sorta dopo decenni di conflitti, era alla fame. Generava meno del 5% del prodotto globale e il reddito pro capite era ridotto a un quarto della media mondiale, alla metà di quello dell’Africa.

DAL 1950 AL 1980 la crescita dell’economia venne rallentata da errori strategici, come il Grande Balzo in Avanti del 1958-1961 (carestie con milioni di morti). La produttività subì un calo. Pure, il reddito pro capite raddoppiò rispetto alla nascita della Repubblica e il peso dell’industria salì dal 10 al 37% del prodotto, mentre il peso dell’agricoltura scendeva dal 60 al 34%. Le riforme che Deng Xiaoping e Zhao Ziyiang avviarono dopo la morte di Mao, a cominciare dall’agricoltura, segnarono la svolta. Dal 1980 al 2019 la dinamica del Pil cinese ha superato il 9% l’anno, distanziando quella mondiale. La Cina è arrivata a esprimere il 20% del prodotto del globo, rispetto al 15% degli Stati Uniti. Il reddito pro capite è tornato sulla media di quello dell’umanità.

La produzione è solo per il 7% agricola, per il 39% industriale, per il 54% terziaria. La Cina è al primo posto al mondo nei prodotti dell’agricoltura, nella manifattura, nell’offerta di molte materie prime. È il massimo esportatore di beni, detiene 3,5 trilioni di dollari di riserve ufficiali, registra una posizione creditoria netta verso l’estero sui 2,5 trilioni di dollari. Con Giappone e Germania è il principale finanziatore degli Stati Uniti, il massimo detentore del debito pubblico americano. Ronald Coase, premio Nobel, ha descritto quella cinese come un’economia «capitalista», che si affida al mercato e all’iniziativa privata in un quadro giuridico che abbatte i costi delle transazioni. La spinta sarebbe per Coase scaturita dal basso, da un popolo stanco della miseria e dei vincoli imposti dall’alto. Politici e burocrati non poterono che prendere atto dell’ineluttabilità di dare forma ai mutamenti istituzionali necessari al mercato e all’impresa privata

ALL’OPPOSTO, quella cinese resterebbe un’economia dominata dallo Stato. I metodi invalsi dal 2012 sotto la guida di Xi Jinping hanno insospettito gli Stati Uniti, che li considerano incoerenti con un’economia di mercato e pericolosi per gli scambi internazionali: sussidi, crediti agevolati, favori per le imprese di Stato, acquisizione programmata di tecnologie all’estero, pressione sulle imprese straniere affinché travasino tecniche nelle aziende cinesi, discriminazioni nei confronti della presenza straniera.

Il governo cinese ha avviato nel 2015 e confermato nel 2018 un Piano Made in China 2025 teso a rendere dominanti nel mondo le industrie nazionali nelle tecnologie di punta. Anche la Belt and Road Initiative lanciata nel 2013 dal governo cinese è vista come strumento di penetrazione commerciale e politica, affidato in larga misura a imprese pubbliche inquadrate da Pechino. Questi e altri elementi hanno innescato la reazione sul piano geo-politico dell’Amministrazione Trump.

FRA CHI CONTRAPPONE una Cina capitalista a una Cina statalista di ritorno la posizione di Xi Jinping è che il sistema si configura come «un moderno socialismo con caratteristiche cinesi» nel quale il mercato è «decisivo». Restano pubblici i settori di base, ad alta intensità di capitale e quelli considerati strategici. La formula di Xi esclude che il sistema sia dominato dal mercato e dagli interessi privati. La linea divisoria fra pubblico e privato è tutt’altro che netta.

E tuttavia ai privati fa capo la più gran parte dell’attività produttiva, degli 800 milioni di lavoratori. L’1% dei cinesi più ricchi detiene un terzo del patrimonio totale del Paese, mentre appena l’1% del patrimonio fa capo al 25% della popolazione meno abbiente. Grandi imprese promosse e gestite da imprenditori privati si sono affermate sino a sfidare i giganti mondiali.

Al di là delle etichette sul tipo di economia, nonostante i formidabili progressi compiuti, la società cinese resta gravata da problemi irrisolti: una produttività tuttora carente si unisce ad acutissimi squilibri territoriali, distributivi, ambientali, nella rete di protezione sociale (pensioni, sanità), bancari e finanziari.

Non foss’altro che per le sue dimensioni la Cina, oltre a condizionare l’economia mondiale, è tuttavia in gara con gli Stati Uniti per il primato geopolitico.

FINORA LA RISPOSTA degli Stati Uniti – la risposta protezionistica – è stata la peggiore, sia per la sua inefficacia sia per le sorti dell’intera economia del globo. Gli Stati Uniti dovrebbero piuttosto concentrarsi sul superamento delle loro debolezze interne: la crisi pandemica pessimamente gestita da una sanità inadeguata si è unita a produttività ristagnante, basso risparmio, basso investimento, bassa riserva di forza-lavoro, borse drogate dalla liquidità, bilancia dei pagamenti da mezzo secolo in disavanzo, debito pubblico e debito estero rampanti, seri problemi ambientali e di sicurezza del territorio, scandalosi divari fra ricchi e poveri, bianchi e neri, uomini e donne, stati dell’Unione.

Al fondo, Cina e Stati Uniti sono entrambi giganti con i piedi d’argilla. La consapevolezza di ciò dovrebbe indurli a evitare nuove «guerre dell’oppio» e, se non a cooperare, a tollerare che anche la nazione rivale volga le risorse a curare le proprie piaghe. Ne dipendono la pace e il benessere dell’intera umanità.