In Autoritratto di un altro (Crocetti 1998, traduzione di Fulvio Ferrari) Cees Nooteboom aveva scritto: «La trasmigrazione delle anime non avviene dopo, ma durante la vita». Quelle parole erano una dichiarazione di poetica, ancillari e seduttive nell’accompagnare il lavoro dell’allora sessantacinquenne scrittore olandese, già a quei tempi tra gli autori imprescindibili di un secolo. Dicevano del suo indefesso viaggiare e della ricerca di forme sempre nuove in cui, come ogni grande scrittore, provava a costringere l’informe di un caos sfuggente: dall’afflato lirico dell’esordio, nel 1955, con Philip e gli altri all’umorismo del saggio su Cervantes Verso Santiago a Le montagne dei paesi bassi, (disponibili da Iperborea nelle traduzioni di Fulvio Ferrari e David Santoro). Dicevano, quelle parole, che ogni libro è il mondo che rinasce, il vagito e il tentativo di mettere a fuoco le cose, di farle assomigliare a un’ipotesi, per poi – sempre, alla fine – smentirla, dichiararla fallita, e dover ricominciare a raccontare.

A furia di trasmigrare Nooteboom ha dato del filo da torcere ai critici che cercavano parentele, ha seminato gli etichettatori che lo rincorrevano con un cartellino da appendere al vestito. Sopra c’era scritto Nabokov, Borges, Calvino, lo scrittore metafisico, ma anche il suo contrario: il viaggiatore, il cronista del presente, la memoria d’Europa, il testimone degli snodi di un secolo, Budapest ’56, Berlino 1989.
Sono state così tante le vite di Nooteboom che Rüdiger Safransky ha deciso a un certo punto di raccoglierne scampoli – in forma di estratti e di citazioni – dentro un unico affascinante volume, Avevo mille vite e ne ho preso una sola (traduzione di Marco Agosta e Fulvio Ferrari). A leggerlo, se ne ricava l’impressione non solo di maneggiare in un unico impasto densità e ironia, saggezza e naïveté, ma soprattutto di avere tra le mani la testimonianza non di un uomo, ma di un’intera comunità.

È prima di tutto la storia di una comunità quella che Cees Nooteboom racconta ora in Tumbas Tombe di poeti e pensatori (traduzione di Fulvio Ferrari, Iperborea, pp. 375, euro  20,00) libro ancora una volta anomalo, in cui l’autore di Rituali raccoglie ottantatre omaggi a altrettanti autori, ottantare raccoglimenti di fronte all’ultima dimora, quella in cui peraltro, nella beffa finale, l’autore non c’è più. «Chi giace nella tomba di un poeta?», si chiede Nooteboom nell’introduzione al libro. «In ogni caso non il poeta, questo è sicuro. Il poeta è morto, altrimenti non avrebbe una tomba. Ma chi è morto non si trova più da nessuna parte, nemmeno nella propria tomba. Le tombe sono ambigue: custodiscono qualcosa e non custodiscono niente». Nell’ennesima contraddizione che fa grande lo scrittore olandese c’è insieme il razionalismo e l’incerta ambiguità («custodiscono qualcosa e non custodiscono niente») di una sorta di culto laico. Di un’interrogazione, in fin dei conti, nell’evidenza di un dialogo ininterrotto e inininterrompibile. Perché dentro la «trasmigrazione delle anime» di cui parlava in Autoritratto di un altro, c’era a ben vedere uno spiraglio: non certo la mano tesa alla telogia ma qualcosa di simile a uno spiffero, il pensiero della morte che soffia sulle caviglie dei vivi, che li fa raccogliere fetali ogni notte sotto le coperte.

Da Auden sepolto a Kirchstetten, in Austria, alla Sligo di William Butler Yeats – in rigoroso ordine alfabetico – passando per Borges, Canetti, Eliot, Melville, Valéry, Wittgenstein, quella che prende forma sotto gli occhi di chi legge è insieme una comunità utopica, una bilblioteca ideale, e anche una grande autobiografia compilata anno dopo anno da Nooteboom, durante i suoi viaggi.

Al tempo stesso è la testimonianza di un meraviglioso, ancorché estenuante, scacco continuo: per quanto il mondo sia per certi versi sempre lo stesso, ogni tentativo di raccontarlo – ogni tomba – contiene un fallimento, e la somma dei fallimenti è ciò che tiene vivo chi cerca di confezionare, scrivendo, il proprio personalissimo e vano tentativo. Tumbas è, infine, una città ideale in forma di cimitero. Ideale soprattutto per chi la disegna, dal momento che non è scontato – il pensiero fa sorridere – che Kafka se la intenderebbe con Calvino o Dante con Neruda e Vallejo con Keats.

Ma quello di Nooteboom è anche un libro di lapidi, Tumbas, immortalate dagli scatti di Simone Sassen, sua fotografa e compagna di vita. Il libro è la testimonianza anche di quella complicità, è anche l’autobiografia di una coppia. I marmi sepolcrali stanno lì, come porte estreme, con sopra scritti i nomi degli autori, incisi nella pietra come formule magiche da recitare. Quelle formule sono per certi versi anche il senso del viaggio: raggiungere il sepolcro, completare il nome e aspettare che si compia la magia di un’opera che si dischiude.

In fondo, a vederle tra le pagine di questo volume già diventato di culto (l’originale è del 2007), queste porte estreme non sembrano accessi al mondo dei morti. Al contrario, sembra siano porte di fronte a cui Nooteboom ha pronunciato la formula magica perché si spalancassero verso i vivi, perché le opere, liberate, tornassero a volare nel mondo. Per questo i lettori si raccolgono, sembra dire Nooteboom, di fronte alle tombe degli scrittori che hanno amato così profondamente. Bernhard seppellito insieme alla zia, Chateaubriand sotto una croce in pietra senza nome, Walter Benjamin fuggitivo e solo nel cimitero di Portbou, Franz Kafka all’ombra di Hermann Kafka anche dopo il 1924, Brodskij e Pound concittadini nel cimitero veneziano di San Michele, Melville finito in una tomba semplice, «quasi povera, la sepoltura di un autore dimenticato al momento della morte». Ciascuno dei loro sepolcri, visitati dai tanti o pochi pellegrini, libera un’opera che stava chiusa, sclerotizzata dentro memorie e biografie. «Rendere visita alla tomba di un poeta – scrive Nooteboom – è un pellegrinaggio alle sue opera complete. E anche questo è un paradosso, perché per avere accesso alle opere non c’è bisogno di andare sulla sua tomba».

Infine gli epitaffi. Nooteboom correda le foto di Simone Sassen con notazioni personali. A volte sono dei piccoli reportages di viaggio, come nel caso di Auden; altre volte sono commoventi digressioni (tra tutte la più struggente è quella che accompagna «la tomba animistica di Cortázar», con due pagine dedicate in realtà alla morte della moglie dell’autore di Rayuela, Carol Dunlop), altre ancora citazioni del poeta o pensatore lì sepolto, utilizzate alla stregua di epitaffi. È in queste compilazioni discrete, quando Nooteboom intenzionalmente resta in disparte, che si palesa qualcosa di fondamentale. Montale, Hoffmann, Brodskij, Pound, Wallace Stevens: quasi tutti sembrano aver composto in vita le parole del proprio congedo, sembrano aver meditato, ruminandone il senso e il modo, la propria uscita di scena. C’è chi l’ha fatto a un passo dalla soglia (Benjamin: «In una situazione senza uscita, non ho altra scelta che farla finita. La mia vita si conclude in un piccolo paese dei Pirenei dove non mi conosce nessuno… Non mi resta abbastanza tempo per scrivere tutte le lettere che avrei voluto scrivere»), chi l’ha composto e incastonato dentro l’opera (Eliot: «Nel mio principio è la mia fine», dai Quartetti).

Certo è che a leggerli sembra evidente come scrivere sia stato per tutti, e non solo per Nooteboom, una «trasmigrazione» fatta in vita, ovvero parole calate in fondo al mistero per vedere se si sarebbero salvate almeno loro. Le opere dei poeti e dei pensatori, sembra dire Nooteboom, non sono altro che prove di morte, prove generali di evacuazione, accompagnatrici di uomini e donne spaventati quanto e forse più di tutti dall’idea di sparire. È tutto vano, perché di tante parole ne resteranno due, e saranno il nome e il cognome incisi nella pietra. E niente è vano, perché basterà pronunciarli per aprire la cassaforte che contiene tutte le altre. Quelle parole sono il nostro tesoro e il nostro inganno.