La notizia del Cimabue ritrovato in una cucina nei pressi di Compiègne, nel nord della Francia, venduto a 24 milioni di euro, ha fatto il giro del mondo. Le storie delle opere d’arte scoperte in soffitta, in cantina, in cucina o su un treno, appassionano chiunque. È bello pensare che anche noi, prima o poi, potremo scovarne una.
I mercatini delle pulci, così come le aste, non sono forse dei collettori di «merce» che, fino a poco tempo prima, stavano in qualche anonima soffitta, cantina o cucina? Più difficile che la «merce» fosse stata abbandonata su un treno, come è accaduto alla Nature morte au petit chien di Paul Gauguin.
Un giorno mi è capitato di raggiungere, all’alba, il Mercanteinfiera di Parma, forse la più vasta rassegna del genere. Sembrava di stare in un surreale set cinematografico, con le pance dei camion che rigurgitavano montagne di mobili, arredi, cornici, sculture, dipinti, bambole, animali impagliati, libri e scatole piene di cianfrusaglie. Nell’aria si mescolavano i dialetti d’Italia, parlati dai trasportatori e dai facchini, dal siciliano al trentino, coi toni di voce che calavano d’intensità quando è scattata l’ora della colazione. I tavoli degli stand allora si imbandivano di salamelle, pane, formaggio, vino: dal Catarratto al Fiano, dal Primitivo al Bonarda. La mitica scena del Grande raccordo anulare in Roma di Federico Fellini può dare un’idea dello straordinario caos che regnava nei padiglioni della fiera.
In quel contesto era del tutto naturale immaginarsi (anche se probabilmente non era vero) che molta «merce» avesse lasciato spazi domestici, dopo esser stata posseduta da qualcuno che, nel frattempo, era passato a miglior vita.
Nello studio dell’avvocato Melzi
Su questo argomento esiste un notevole saggio di Roberto Longhi, poco noto perché il suo autore l’ha nascosto lontano dagli occhi dei curiosi. Si tratta di un testo giovanile, scritto nel 1917 e pubblicato sulle «Pagine d’Arte» (n. 3). All’epoca Longhi teneva una rubrica intitolata «Nelle raccolte private», dove si era preso la briga di raccontare episodi di scoperte e ritrovamenti, un po’ come la nostra «Aux puces». Più avanti con gli anni si sarebbe reso conto che l’attribuzione a Thomas de Keyser, formulata nell’articolo, era sbagliata, ecco perché l’aveva fatto cadere nel dimenticatoio, luogo da cui ora lo ripeschiamo, anche solo per seguire il filo di un discorso che ci introduce al Cimabue di Compiègne.
Longhi si era immaginato le peripezie vissute dal Ritratto di un gentiluomo di Thomas de Keyser, dai tempi della sua realizzazione fino alla ricomparsa, nel 1917, presso lo studio milanese dell’avvocato Melzi. Ecco la straordinaria «favola istoriata»: «Fu cinquant’anni esposto all’aria salsa di Amsterdam nella saletta della casa cui era capofamiglia il ritratto; in cornice nera alla fiamminga, su muri lisci e bianchi; dopo dieci anni si accompagnò con un Ter Borch dopo venti con un Vermeer; e per trent’anni Thomas de Keijser, ch’era come di famiglia, ebbe diritto di spalancar le persiane per dimostrare l’opera sua a qualche ammiratore o collega di Francia o di Germania. Il sole, del resto, pensò a creare in quei cinquant’anni, sulla tela, il craquelé sottile, con infinitesime screziature cotidiane di suoni, amici solo ai tarli delle madie, agli schiocchi dell’impiantito che s’incrinava, di legno.
Poi la morte dell’effigiato, e il ritratto anch’esso impallidì, fu più smorto; – una guerra di successione; – l’estinzione della famiglia – ; il primo passaggio ad eredità straniere; e nella nuova anticamera una prima lavata malgarbo del maggiordomo che vide perdersi sotto la spugna l’indirizzo vergato a ghirigori sul foglio chiaro: Perillri Dño – e si portò morendo il nome dell’effigiato, che nessuno più seppe chi fosse; – così avvenne ch’egli diventò genericamente un antenato; di quelli che dan tono alle anticamere, ma, essi, pèrdono decoro persona e autorità. Ed è nuova nobiltà su di loro una sottile federa di polvere.
Seguono raccontando di rapine; se è vero che un antiquario francese scrollata un poco la tela se la portò a Parigi – ; ed è ad ogni modo ben certo che in un’asta pochi anni prima dell’89, la vide il Mariette che disse sorridendo al signor Crozat: – “Ça pouvoit être un portrait dans le goût du fameux Rembrandt; mais je vous avoue que je ne suis pas un nouveau monsieur de Piles qui connaissoit très bien cette école là et qui la goûtoit à l’excès; bien qu’elle soit pleine de très grands hommes qui ont joint à une très profonde intelligence du clair-obscur une belle hardiesse de coloris et un très beau maniement du pinceau je pense qu’il ont parfois pèché dans l’observance du dessin…” – Parlano anche di un’occhiata fugace del signor Diderot su istanza di Chardin.
Sommerso dalla rivoluzione, ricomparve in cornice impero ad una vendita del 1820 dopo un’altra lavatura del commissario che affermò di volergli tòrre gli eccessi di tocco e di chiaroscuro – ma cadde tuttavia a 95 franchi fra gli sbadigli degli amatori…».
Nessuno sbadiglio a Senlis
Non si è visto nessuno sbadiglio all’asta organizzata da Actéon a Senlis lo scorso 27 ottobre. Partito da 3 milioni di euro il dipinto di Cimabue è costato oltre i 24 (compresi i diritti). Se l’è aggiudicato un mercante di fama internazionale, acquistato per conto di una coppia di collezionisti (gli Alana, secondo le indiscrezioni della «Gazette Drouot»). Curioso come, finora, lo Stato francese sia stato solo a guardare, senza prendere alcuna iniziativa. Gli restano ancora tre mesi per decretare l’opera tesoro nazionale, impedendone l’esportazione.
È utile provare a immaginare le valutazioni che hanno spinto una manciata di agguerriti antagonisti a spingere così in alto l’asticella. Primo fattore: l’attribuzione. È risultata subito unanime, nessuno specialista l’ha messa in discussione. Secondo fattore: la certezza che la Derisione di Cristo (questo è il titolo della scena dipinta) si collegasse ad altre due testimonianze pittoriche di Cimabue. Essa è infatti identica per misure, tecnica, supporto, stile e punzonature alla Madonna con il Bambino in trono e due angeli della National Gallery di Londra e alla Flagellazione di Cristo della Frick Collection a New York, attribuita giusto da Longhi. Terzo fattore: la conservazione più che buona dell’opera. Quarto fattore: il tempo. Quanto ne passerà prima che si riaffacci sulla terra un’altra, rarissima, testimonianza di Cimabue? Il calcolo delle probabilità ci dice che accadrà tra molti, troppi anni. Allora forse saremo già tutti polvere. È stato il tempo il vero fattore scatenante e chi ha gareggiato fino all’ultimo sangue lo sapeva perfettamente. Chissà se verrà mai scovato il quarto Cimabue che completava la valva del dittico appena descritto? E gli altri quattro?
Un giorno bisognerà prendersi la briga di raccontare qualche curiosa storia di opere d’arte ritrovate in soffitta, in cantina, in cucina o su un treno. La Giuditta e Oloferne di Caravaggio non è forse stata ripescata in un buio sottotetto di Tolosa? Ma sarà vero? Non dimentichiamoci che in passato si sceglievano con cura i set in cui far apparire opere che provenivano da tutt’altro luogo. Per far perdere le tracce, oppure per fornirne di false. Quanti conti Mascetti si sono prestati a dare una ragionevole cornice di senso a crostoni, falsi e bidoni di ogni genere. Ancora oggi alcune case d’aste minori allestiscono le loro esposizioni presso qualche castello o residenza nobiliare. Senza dimenticare che se una proprietà viene messa all’incanto con tutto quello che c’è dentro fa naturalmente lievitare l’interesse – quindi il prezzo – per la «merce» esposta.
Tra una vera cucina e un finto castello è sempre meglio stare dalla parte dell’opera, a patto che sia vera: come il Cimabue.