Ancora proteste, ancora repressione, ancora morti. La rivolta contro il governo di Sebastián Piñera, e, ancora di più, contro il modello di paese ereditato dalla dittatura di Pinochet, è come un fiume in piena. E non serviranno a fermarlo né lo stato d’eccezione, né il coprifuoco, né aggressioni come quelle che i carabineros hanno realizzato nei pressi di plaza Italia a Santiago, attaccando i manifestanti con gas lacrimogeni e fucili ad aria compressa, o nel parco Bustamante, sparando sulla folla cannoni ad acqua, mentre il conto dei morti è salito a 15 e i feriti sono già 2.643.

IL PRESIDENTE PIÑERA, tuttavia, va avanti per la stessa strada, invocando «la legge di sicurezza dello Stato contro il pugno di delinquenti che con violenza e malvagità distruggono proprietà e sogni» e difendendo la continuità dello stato d’emergenza «in molte regioni del Cile per consentire che i militari collaborino con le forze dell’ordine al fine di proteggere la vita, la tranquillità e i beni della popolazione». Quando è stato proprio il ritorno dei carri armati e dei blindati per le strade, in un paese in cui sanguinano ancora le ferite della dittatura, ad aver gettato olio sul fuoco delle proteste.

E mentre criminalizza la mobilitazione popolare, il presidente annuncia una riunione con i partiti di opposizione, «per avanzare verso un accordo sociale» in grado di offrire «le migliori soluzioni ai problemi di cui soffrono i cileni», assicurando il proprio impegno per il miglioramento delle pensioni, la riduzione dei prezzi dei farmaci e un maggiore investimento nella salute. Ma è assai improbabile che sia questa la via per uscire dall’attuale crisi.

Perché, in Cile, i partiti di opposizione risultano screditati quasi quanto quelli di maggioranza, come non manca di indicare, di elezione in elezione, il sempre più alto astensionismo, un riflesso della convinzione che le attuali forze politiche siano in realtà la stessa cosa, in quanto tutte al servizio del capitale transnazionale.

NON PER NIENTE, dopo la dittatura e prima di Piñera (eletto nel 2017 con appena il 26.4% delle preferenze degli iscritti al registro elettorale), non sono bastati sei mandati presidenziali per applicare l’unica soluzione possibile per invertire la tendenza: la convocazione di un’Assemblea costituente in grado di rispondere alle speranze di un profondo cambiamento democratico con giustizia sociale.

Mandando al macero, pertanto, la Costituzione di Pinochet – disegnata su misura degli interessi dell’oligarchia – come pure il suo modello economico, definito il più neoliberista del mondo. E neppure la novità delle ultime elezioni rappresentata dal Frente Amplio – il cui programma prevedeva, tra l’altro, proprio il ricorso a un’Assemblea costituente e la conformazione di uno Stato plurinazionale tale da riconoscere il diritto all’autodeterminazione dei popoli indigeni – è riuscita finora ad alimentare nuove aspettative.

A PREVALERE, insomma, è ancora il vecchio que se vayan todos, insieme alla convinzione che solo le organizzazioni dei lavoratori e degli studenti e i movimenti sociali in generale possano sul serio cambiare la situazione del paese.

E non certo un dialogo tra governo e opposizione, che, come sottolinea lo storico cileno Rafael Luis Gumucio Rivas, non farebbe che terminare «con frasi rimbombanti prive di senso rispetto alla realtà» e utili soltanto a «continuare a ingannare le masse». L’unico vero soggetto di cambiamento – l’unico in grado di garantire «un’uscita politica efficace» ai problemi «irrimediabili all’interno di quest’ordine istituzionale e sotto la guida delle élite al potere» – è allora, secondo il giurista Héctor Testa Ferreira, un movimento popolare «plurale e combattivo», e «senza rappresentanti che possano negoziare soluzioni non all’altezza della crisi».

E, SE UN DIALOGO può esserci, non solo deve partire dalla revoca dello stato d’emergenza, ma deve anche rivolgersi alle organizzazioni rappresentative dei lavoratori e ai movimenti sociali, come ribadiscono in un comunicato le associazioni sindacali e altre organizzazioni, convocando, a partire da oggi, «un grande sciopero generale» che paralizzi il paese.

PIENA SOLIDARIETÀ ai manifestanti e alle loro rivendicazioni è stata espressa intanto anche dalla Coordinadora Arauco-Malleco (Cam), organizzazione politica mapuche impegnata nel recupero dei territori indigeni usurpati, la quale, rivendicando «il legittimo diritto alla ribellione da parte del popolo cileno», rivolge un appello a tutto il popolo mapuche a portare avanti con forza ancora maggiore la lotta territoriale e la resistenza contro «l’oligarchia oppressiva», fino all’«espulsione totale delle imprese forestali, delle centrali idroelettriche e di tutti gli altri investimenti capitalisti da parte di questo regime colonialista».